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Manuela Martini – Fedeli alla terra. Scelte economiche e attività pubbliche di una famiglia nobile bolognese nell’Ottocento – 1999

Manuela Martini
il Mulino, Bologna

Anno di pubblicazione: 1999

Attraverso le vicende della famiglia patrizia dei Bolognini, Manuela Martini affronta il tema del ruolo delle nobiltà nell’Ottocento. Il suo è un Ottocento “breve”, che si ferma alle soglie della crisi agraria: qui si coglie dunque una fase specifica della storia della nobiltà in età contemporanea, la fase della formazione e del trionfo della “configurazione moderata” pre e post-risorgimentale.
Come affrontò le sfide del secolo borghese questo antico casato? In primo luogo, all’aprirsi del secolo la famiglia si trovò dotata di un solido patrimonio, perché l’estinzione degli altri rami favorì la concentrazione dei beni nelle mani del marchese Antonio Amorini Bolognini; il marchese dunque fu in grado di approfittare della vendita dei beni nazionali in età napoleonica, come fecero altri suoi pari dentro e fuori Bologna. L’analisi dei bilanci, inoltre, dimostra che la famiglia riuscì a proporzionare le spese alle entrate, tenendo sotto controllo il consumo ostentatorio ed evitando investimenti arrischiati. Il patrimonio conservò un netto profilo immobiliare, come risulta tra l’altro dalle dichiarazioni di successione, presentate tra il 1856 e il 1885, dei tre figli maschi di Antonio. La “fedeltà alla terra” degli Amorini Bolognini, tuttavia, non escluse un atteggiamento imprenditoriale in campo agricolo. L’analisi della gestione aziendale, alla quale è dedicata tutta la seconda parte del libro, mette in evidenza sia il loro spiccato interesse per le colture della canapa e del riso, i prodotti più mercantili dell’agricoltura bolognese, sia la loro attenzione a quelle innovazioni agronomiche e contrattuali di cui discuteva la Società Agraria, della quale i nostri naturalmente erano membri.
Una nobiltà cautamente innovatrice in campo economico, dunque, ed altrettanto o forse ancora più cauta in campo sociale e politico. Il matrimonio “diseguale” di una figlia di Antonio con il borghese Camillo Salina, che ricevette comunque il titolo di conte qualche anno dopo le nozze, segnò il massimo della trasgressione ad un costume di endogamia cetuale, che si allentò veramente solo ad Ottocento inoltrato. La partecipazione degli Amorini Bolognini alle istituzioni cittadine vecchie e nuove fu naturalmente molto ampia; in essa la Martini scorge la radice di quello spirito autonomistico, che ispirò la politica di un Marco Minghetti. Ma dire che il municipalismo porta “l’impronta del civismo dell’élite nobiliare in questo particolare contesto” (p. 391) non è un’interpretazione troppo benevola, che trascura le resistenze cetuali? Il lato oscuro dell’agire nobiliare, poi, sembra messo in sordina anche nei riguardi di Vincenzo, l’esponente della famiglia più caratterizzato in senso imprenditoriale. Vincenzo fu uno dei soci fondatori della Banca pontificia per le quattro legazioni e da essa ricevette un prestito enorme, pari a più di mezzo milione di lire italiane. Un accesso al credito così privilegiato non ricorda i tempi antichi, piuttosto che i nuovi?

Mirella Scardozzi