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Margherita Platania – Israele e Palestina. Dalle origini del sionismo alla morte di Yasser Arafat – 2005

Margherita Platania
Roma, Newton Compton, pp. 173, euro 6,00

Anno di pubblicazione: 2005

Margherita Platania, studiosa della storiografia francese e del Mezzogiorno italiano, si interessa da anni ai problemi del Medio e Vicino Oriente. Il filo conduttore di questo volume è espresso nell’incipit, che riprende alcune considerazioni del defunto intellettuale palestinese Edward W. Said: il futuro (pacifico) nella regione dipende dalla creazione di un legame tra le due storie (esperienze). Questo è quanto auspicava Said nel suo libro I palestinesi. Questo è quello che auspica la Platania nel suo sintetico ritratto bidimensionale del conflitto israelo-palestinese. Che un discorso escluda o includa uno o più contendenti, come auspicava l’intellettuale palestinese in un passaggio centrale e tuttavia nebuloso del suo libro (e diremmo di tutta la sua ampia produzione dedicata alla costruzione dell’Oriente), appare un compito indecidibile. Rifacendoci a una nota espressione di un altro defunto alfiere dell’evento (Jacques Derrida) a scapito dell’avvenimento (politico), ci sentiamo di osservare che la decisione di sedersi a un tavolo di pace per ottenere il riconoscimento altrui (Hegel redivivo?) sarà assoluta e irriducibile priorità delle future generazioni (che si tratti di palestinesi o israeliani).
Fatte queste debite premesse etico-estetiche, il volume della Platania ricostruisce unilateralmente le vicende del conflitto israelo-palestinese. Israele e Palestina, oppure sarebbe meglio dire Palestina e Palestina? Il distinguo-sovrapposizione tra Israele ed ebraismo, spesso utilizzato nella storiografia filoisraeliana o filopalestinese, insorge come excusatio non petita dietro al problema identitario. Ogni essere umano ha numerose identità, afferma il medico ebreo egiziano Chetata Haroun. Affermazione assolutamente condivisibile, che non ha però nulla a che vedere con il cosiddetto riconoscimento della narrazione-storia altrui. Se lo statuto di vittime non è un dato sempiterno, ma un’autoelaborazione identitaria imposta dall’altro, come hanno affermato irreprensibili personalità della sinistra rivoluzionaria (Franz Fanon), che cosa impedisce ai palestinesi o agli ebrei di lasciarsi alle spalle inutili orpelli del passato per guardare all’attualità presente?
Il lavoro è suddiviso in sei capitoli. Abbiamo l’esposizione delle origini del conflitto (dalla fine dell’Ottocento sino alla vigilia della nascita di Israele), rilette alla luce della progressiva penetrazione del sionismo occidentale in Medio Oriente. Abbiamo il primo conflitto arabo-israeliano, con la nascita del problema dei profughi e con l’espulsione delle vittime delle vittime. Abbiamo le tre guerre del 1956, 1967 e 1973, con la nascita dell’OLP e con la pace separata tra Israele ed Egitto. Abbiamo il processo di pace avviato con gli accordi di Oslo, arenatosi dietro un muro di sicurezza. I due capitoli conclusivi sono dedicati al rapporto tra identità e storiografia nazionale e alla politica di Sharon, favorevole all’insediamento di una controparte moderata dopo la morte di Arafat. La capacità di guardare l’altro è ancora lontana, conclude icasticamente l’autrice.

Vincenzo Pinto