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Medioevo e Risorgimento. L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento

Duccio Balestracci
Bologna, il Mulino, 158 pp., € 15,00

Anno di pubblicazione: 2015

Lo snello volume compie una persuasiva incursione sul terreno del Risorgimento
analizzandone la cifra narrativa di maggior successo, il Medioevo. Fenomeno discorsivo
che regge sul piano della letteratura, delle arti figurative, dell’opera lirica, della festa in
costume, quello imperniato sui secoli di mezzo come epoca di formazione del più autentico
dna italiano attraversa i decenni del protonazionalismo e del Nation building, per
conoscere un declino solo a inizio ’900.
Accogliendo i risultati del filone di studi dedicato alle imagined communities e all’«invenzione
della tradizione», e per il Risorgimento le tesi di Alberto Mario Banti, l’a. entra
con la sensibilità e le conoscenze del medievista nel laboratorio della nazione nascente mostrandoci
gli attrezzi e le strategie che, in forma di prodotti culturali e pratiche discorsive,
fecero del Medioevo un potente «costruttore di contemporaneità» (così l’efficace titolo di
un paragrafo, p. 10). Un Medioevo da intendersi però non come epoca da studiare, bensì
come stato d’animo collettivo, come «condizione dello spirito» (p. 11) cui ispirarsi e a cui
aspirare grazie alla duttilità e alla versatilità di molti suoi «ingredienti», recuperabili per
nutrire la passione e le emozioni politiche necessarie alla lotta di liberazione nazionale.
Se tuttavia il Medioevo come «serbatoio di mito identitario» (p. 21) non fu un’esclusiva
dell’Italia, fu qui che l’operazione di revival si realizzò con particolare successo, in
quanto si trattava di comunicare proprio il mito di una grandezza perduta da ritrovare.
Un’idea che, già al centro di opere di stranieri come Corinna di Madame De Staël e
l’Histoire des Républiques italiennes du moyen âge di Sismondi, venne poi declinata dai
vari protagonisti del pensiero e dell’azione risorgimentale secondo alcuni topoi ricorrenti:
la libertà dell’età comunale o la fertilità dell’esperienza municipale, minimizzando la
conflittualità dei comuni italiani e proponendola piuttosto come «disordine» creativo di
sviluppo, non ultimo economico.
L’a. guida abilmente nel dedalo di appropriazioni, recuperi, equilibrismi interpretativi
destinati tra l’altro ad attribuire radici latine piuttosto che barbariche, o meglio un
ibrido delle due, agli italiani del XIX secolo in cerca di una patria capace di conciliare
le piccole patrie. Ed è proprio nell’analisi della dialettica locale-nazionale che il volume
offre un contributo prezioso agli studi sul Nation building nelle periferie della penisola:
confermando come attraverso l’azione delle deputazioni di storia patria e società storiche
locali, le iniziative di divulgazione e pedagogia patriottica all’indomani dell’Unità, sino al
dilagare del gusto neogotico in architettura, le cento città italiane cercarono un comune
denominatore e lo trovarono in un Medioevo duttile ed evergreen. Che funzionò ancora
per qualche decennio: sino a che, a inizio ’900, la nuova temperie politico-culturale lo
avrebbe sentito non più funzionale al discorso storiografico e pubblico sull’italianità, e
Roma avrebbe soppiantato «il retaggio medievale nella costruzione della cifra identitaria
nazionale» (p. 132).

 Arianna Arisi Rota