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Nascere in montagna. Levatrici e mammane nella società bellunese fra Ottocento e Novecento

Ferruccio Vendramini
Sommacampagna, Cierre, 231 pp., € 12,00

Anno di pubblicazione: 2013

Ferruccio Vendramini è giornalista pubblicista ed è stato direttore dell’Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Età Contemporanea per circa un ventennio. Il suo volume Nascere in montagna è strutturato in due parti: L’Ottocento (pp. 19-109) e I primi decenni del Novecento (pp. 111-160); segue una corposa appendice (pp. 161-224), nella quale vengono riportati dieci documenti, tre inediti e sette già editi.
La monografia presenta i risultati di una ricerca riguardante una professione esclusivamente femminile − quella di levatrice − tra gli anni ’20 dell’800 e gli anni ’30 del ’900, nel bellunese. Nel primo ’800, essere una mammana significava prestare assistenza − per guadagno o per carità − a una gravida, partoriente o puerpera avendo come unico requisito la propria esperienza. Perché divenisse obbligatorio lo studio dell’arte, dovettero passare alcuni decenni. È attraverso le lettere, scritte dai rappresentanti politici e dai parroci ad altre autorità, che è possibile comprendere bene quali fossero i disagi delle levatrici che lavoravano in un’area «vasta» e «aspra» (p. 32) come quella montana, dove la retribuzione era spesso scarsa e differita.
Colpiscono le terribili storie di cronaca nera reperite da Vendramini nel giornale bellunese L’Alpigiano, accadute tra il 1890 e il 1894. Nel primo processo, per infanticidio, l’imputata è Giovanna, una donna che, per salvare l’onore della figlia, uccide il nipote neonato (pp. 80-81); nel secondo processo, sempre per infanticidio, l’omicida è Antonia, un’altra nonna e per di più levatrice approvata dal Comune, la quale per salvare anch’essa l’onore della figlia, assassina la nipotina appena nata (pp. 82-84). Il terzo caso riguarda invece il suicidio di una giovane sposa di Mier, divenuta balia, la quale, per disperazione, si getta nel Piave (pp. 106-107).
È interessante la relazione del 1870 sui brefotrofi dell’avvocato Carlo Zasso, nella quale l’amministratore della Provincia di Belluno propone di interrompere il sostegno finanziario per il mantenimento dei numerosi bambini esposti. Contrariamente alla morale dell’epoca, che riteneva uno scandalo tenere con sé un figlio nato da genitori non sposati, Zasso era convinto che «un figlio è per le leggi di natura affidato direttamente ed esclusivamente a’ suoi genitori, i quali hanno perciò l’obbligo indeclinabile di prenderne cura». Il suo senso morale restava infatti «più offeso nel vedere una madre che getta via ed abbandona il proprio figlio, che dal sapere ch’essa cadde in fallo», perché «chi abbandona il proprio figlio commette un atroce delitto» (p. 73). Il materiale archivistico utile alla ricerca − una ventina di pezzi − è conservato presso l’Archivio Storico del Comune di Belluno.

Caterina Donaggio