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Nicola Tranfaglia – Perché la mafia ha vinto. Classi dirigenti e lotta alla mafia nell’Italia unita (1861-2008) – 2008

Nicola Tranfaglia
prefazione di Giancarlo Caselli, Torino, Utet, 170 pp., euro 15,00

Anno di pubblicazione: 2008

L’opinione radicale che orienta questo rapido percorso di Tranfaglia nella storia lunga di mafia/antimafia si rende esplicita nelle affermazioni tranchantes di esordio (pp. 3-5): che a 15 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio l’unica ragione per scrivere ancora di mafia è nella «speranza di comprendere le ragioni della sconfitta dello Stato nel tentativo di risolvere il problema, una volta per sempre» che, ad onta di giudizi meno pessimisti, negli ultimi decenni la mafia ha vinto la sua guerra contro lo Stato di diritto, passando da strategie terroriste all’immersione finanziaria nella globalizzazione, ed espandendo intanto nella politica la mafia come metodo; che è questo l’esito più che secolare di una lotta alla mafia sempre inadeguata da parte delle classi dirigenti. Le quali non hanno saputo o voluto sradicare il fenomeno ? di là da periodiche repressioni limitate all’ala militare ? attraverso l’educazione degli italiani e lo sviluppo economico/civile del Mezzogiorno; proponendo anzi una perversa «coabitazione tra mafia e politica» (espressione ripresa dalla relazione antimafia di Violante 1993).Il proposito divulgativo motiva il percorso storico intorno alle vicende più significative del fenomeno mafioso, inquadrandole di volta in volta nel contesto (p. 5) attraverso ampi excursus, che peraltro restano sostanzialmente a latere della vicenda mafiosa (ad esempio le pp. 21-40 sull’uscita dalla guerra 1943-47; 89-108 sulla crisi degli anni ’70-80 che prepara il 1993; 150-162 sull’identità italiana debole che spiega la disaffezione diffusa alla legalità e alla Costituzione). Tale metodologia conferma la propensione dell’a. a dilatare il suo oggetto nella più ampia storia d’Italia, già riscontrabile nei suoi precedenti lavori sulle collusioni mafia-politica-affari in età repubblicana, su cui questa sintesi sembra tornare in chiave prettamente politica.Trattate velocemente le vicende di età liberale e fascista nel primo capitolo, vengono in evidenza a partire dal 1943-47 i vari fattori interagenti nella «coabitazione tra mafia e politica», che fa da tesi unitaria del libro. Cioè le trame antidemocratiche tra poteri nostrani e d’oltre Atlantico (riprodottesi da Portella delle Ginestre, probabilmente?, ai più documentati casi Calvi/Sindona), e d’altra parte le continuative collusioni della classe dirigente meridionale con la mafia (trattate in termini tanto generali da restare poco probanti dello specifico mafioso: domanda/offerta di consenso elettorale, accesso privilegiato alle risorse pubbliche provenienti dal centro, nelle successive forme di sviluppo squilibrato del Sud?). Il pessimismo del libro, circa un fallimento epocale dell’antimafia che vent’anni fa ci ha fatto sognare, si fa ipersoggettivo intorno alle conclusioni del processo Andreotti, con la sottovalutazione della mediazione passata con la prescrizione delle relazioni mafiose pre-1980, e la mancata distinzione tra verità politica e giudiziaria; difetto metodologico-politico che si legge anche nella prefazione di Caselli, pur ponderata circa le conquiste istituzionali dell’antimafia a partire dagli anni ’80.

Marcella Marmo