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Ordinaria amministrazione. Gli ebrei e la Repubblica sociale italiana

Matteo Stefanori
Bari-Roma, Laterza, 225 pp., € 24,00

Anno di pubblicazione: 2017

In duecento dense pagine e venti di Bibliografia l’a. rielabora e sintetizza una parte della sua tesi di dottorato riguardante la persecuzione degli ebrei nella Rsi, «la repubblica antisemita» (p. 27) così giustamente denominata dall’a., visto che Salò «formalizzò la sua politica antiebraica […] seguendo un radicale orientamento antisemita» (p. 39), in particolare attraverso due misure: il sequestro dei beni posseduti dagli ebrei e l’arresto della popolazione ebraica che sarebbe stata internata, dopo l’ordinanza del 30 novembre 1943, in campi di concentramento. Queste sono due facce di un unico progetto politico della Repubblica fascista e del suo capo Mussolini, il quale fu pienamente responsabile dell’eliminazione della presenza degli ebrei dalla società italiana. Il suo progetto incontrò però la concorrenza della politica messa a punto dagli uomini di Eichmann, che organizzarono le deportazioni degli ebrei nei campi di sterminio e con i quali «la soluzione finale irr[up]pe in Italia» (p. 37).
In sei capitoli ben strutturati viene analizzato l’antisemitismo di Stato in Italia dalle leggi del 1938 fino alla radicalizzazione antisemita della Rsi. Il campo di Vo’ Vecchio nel padovano è descritto come esempio significativo dei campi di concentramento provinciali della Rsi, rimasto sotto il controllo italiano fino all’arrivo della polizia nazista nel luglio 1944. Spesso l’a. riesce a far parlare anche le vittime, sopravvissute e non.
La vera novità della ricerca di Stefanori emerge in particolar modo nell’ultimo capitolo. Consultando gli archivi di Stato di varie province, l’a. dimostra che la consegna degli ebrei all’alleato tedesco per la loro deportazione nei campi di sterminio non avvenne mediante un accordo segreto tra governo della Rsi e governo del Reich, bensì si sviluppò già prima dell’invio degli ebrei a Fossoli, sulla base dei rapporti tra autorità provinciali e rappresentanti locali delle Ss e della polizia tedeschi. Nonostante il fatto che i capi delle province, di cui nel testo vengono ricostruite le biografie politiche, fossero quasi sempre fascisti convinti e ben inquadrati fin dagli inizi, volonterosi esecutori della volontà politica governativa, in alcuni casi cedettero alla pressione nazista, mentre in altri evitarono la consegna degli ebrei. Perché?
«Pur condividendo l’opportunità di applicare una radicale persecuzione antiebraica e di collaborare in questo con gli alleati di Berlino» (p. 192), i capi delle province preferivano eseguire gli ordini emanati dal proprio governo. Già nell’esecuzione degli arresti avevano mantenuto uno spazio di autonomia e collaborato «in maniera parziale ai piani nazisti» (p. 184). Tuttavia il Ministero dell’Interno non rispose in maniera né chiara né tempestiva e lasciò gli alti funzionari soli di fronte alla pressione tedesca (che proveniva dalla polizia-Ss, non dai militari). La seconda fase della Shoah in Italia, dopo la prima delle deportazioni naziste dirette, venne quindi realizzata non solo dall’alto verso il basso bensì scaturì anche dai rapporti di forza locali tra due alleati con concezioni politiche simili ma non identiche.

Lutz Klinkhammer