Cerca

Paolo Paoletti – Cefalonia 1943. Una verità inimmaginabile – 2007

Paolo Paoletti
Milano, FrancoAngeli, 543 pp., Euro 32,00

Anno di pubblicazione: 2007

Il generale Gandin non fu un eroe che resistette ai tedeschi, ma un vero e proprio «traditore»: questa la tesi di fondo del libro. Secondo l’a., Gandin ricevette inequivocabili ordini sull’atteggiamento da assumere verso i tedeschi già l’11 settembre. Tuttavia, a differenza di quanto gli era stato chiesto, e di quanto avveniva in altre isole del Mediterraneo, egli fece in modo che l’esercito italiano non mantenesse le posizioni strategiche che già controllava perché il suo obiettivo era consegnare truppe e armi ai tedeschi. Le trattative col Reich fallirono per un irrigidimento di entrambe le parti. Ma allora, si chiede Paoletti, perché gli italiani di Cefalonia furono sterminati mentre altrove i loro commilitoni subirono destini meno crudeli? Il fatto è che la Divisione Acqui non si limitò a cambiare fronte, ma si ammutinò e l’ammutinamento era considerato dai tedeschi l’atto più disdicevole che un soldato potesse compiere. «Diventa così evidente che l’efferatezza germanica dimostrata a Cefalonia non dipendeva più solo da un fattore militare, ma, diciamo così, etico-morale» (p. 413). Infine, si ricostruisce il percorso che ha portato, prima l’Ufficio storico dello SME, poi i politici e gli studiosi, a considerare erroneamente Gandin un eroe della Resistenza.L’a. è molto critico verso gli storici che hanno scritto su Cefalonia «senza avere consultato i documenti e le fonti estere» (p. 23) e non come si fa nel presente testo, dove «per dimostrare il tradimento del gen. Gandin parleremo di fatti e useremo documenti» (p. 27). Il libro è farcito di frasi tipo «gli storici devono prendere atto» o «è questo quello che gli storici [?] tacciono» (pp. 37-38). Per non parlare dei grossolani errori attribuiti a Rochat, che in varie occasioni «dimostra di non aver letto» indispensabili documenti (passim). Questo atteggiamento molto (forse troppo) polemico nei confronti della storiografia poggia sulla convinzione che una cospicua ricerca archivistica, come quella effettivamente svolta dall’a., sia garanzia di buoni risultati storiografici. Invece, in questo caso le fonti rischiano di schiacciare la ricostruzione con una dovizia di particolari eccessiva (un intero paragrafo ha il solo compito di stabilire se sia vero o meno che Gandin ha scagliato la croce di ferro contro il plotone che lo stava giustiziando). Anche per questo, mi sembra che restino più convincenti le ipotesi proposteci da coloro che, pur riconoscendo ai fatti di Cefalonia una grande rilevanza, li hanno sempre interpretati secondo una visione sistemica, cioè alla luce dello sbando cui l’intero paese andò incontro. Leggere «i documenti per quello che dicono», come l’a. sostiene di aver fatto, può indurre a raccontare fin nei minimi dettagli la «verità» delle fonti, che raramente, però, è utile se recepita senza alcuna scrematura interpretativa o se metabolizzata attraverso un troppo tenue richiamo alle principali problematiche generali. Specie per un libro che, recando il termine «verità» nel titolo, dà per scontato che quanto scritto prima sull’argomento non valga granché e, soprattutto, che null’altro potrà mai aggiungersi.

Matteo Di Figlia