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Pavel Chinsky – La fabbrica della colpa. Microstoria del potere staliniano – 2006

Pavel Chinsky
Milano, Bruno Mondadori, XVII-172 pp., euro 13,00 (ed. or. Paris, 2005)

Anno di pubblicazione: 2006

Nel corso del 1937 e del 1938 furono condannate in URSS, per casi istruiti dagli organi dell’NKVD, 1.344.923 persone, circa metà alla fucilazione, mentre il resto fu avviato verso il gulag. Uno di questi fu Izrail’ Savel’evi?c Vizel’skij. Ebreo; membro del partito dal 1921; fratello di ?cekisti, uno dei quali arrestato nell’agosto 1937; vice direttore della direzione per la fibra artificiale del Commissariato all’industria pesante, bersaglio centrale del terrore staliniano; fra i pochi sovietici che avevano visitato, per ragioni professionali, Germania e Cecoslovacchia, Vizel’skij era una vittima predestinata delle purghe. Fu arrestato il 4 febbraio 1938, e condannato, il 14 maggio 1938, dal Collegio militare della Corte suprema a una pena di 12 anni per «appartenenza a una organizzazione antisovietica trozkista ». Morì nel gulag il 7 ottobre 1941 e fu riabilitato il 26 marzo 1956 da una sentenza della Corte suprema dell’URSS, che giudicò il suo caso «falsificato dagli ex agenti dell’NKVD». La vicenda è narrata da Chinsky, che ha usato il dossier Vizel’skij conservato negli archivi dell’ex KGB per ricostruire le varie fasi dell’istruttoria, che una traduzione approssimativa definisce lungo tutto il testo «istruzione». In effetti, una vera istruttoria non vi fu mai, e l’unico capo di accusa prodotto nel corso degli interrogatori furono le testimonianze di altri condannati e indagati. La condanna, in un «processo» durato appena qualche minuto, e la morte di stenti e malattia nel gulag conclusero una vicenda tristemente nota, che accomuna la sorte di Vizel’skij a quella di centinaia di migliaia di cittadini sovietici. Non si vede bene che cosa sostanzi il giudizio di Chinsky, secondo il quale la sua ricostruzione apre uno «squarcio [?] illuminante» sull’«universo della grandi purghe staliniane» (p. IX), e offre materia per una «microstoria del terrore staliniano». Per poter essere considerata una microstoria, manca alla ricerca la capacità di ricostruire nella sua completezza la personalità del principale protagonista della tragedia narrata. Consapevole di questo, Chinsky tenta di crearla a posteriori, spiegando il rifiuto di Vizel’skij di riconoscersi colpevole. In effetti, un verbale di interrogatorio Vizel’skij lo firmò, fidandosi «della parola d’onore di comunista ?cekista » dell’inquirente, e una volta nel gulag terminò la sua vita inviando «tre plichi a Stalin» (pp. 130-45) per chiedere la revisione del processo. Questa era la legge della «fabbrica della colpa», alla quale nessuno poteva sottrarsi: solo chi aveva tolto la libertà poteva restituirla. Per comprendere il funzionamento della «fabbrica» nel suo complesso restano da sciogliere altri interrogativi. Perché i vertici del regime furono ossessionati dalla prova scritta della «colpevolezza», anche quando, come nel caso di Vizel’skij, non intendevano celebrare processi pubblici? Perché l’istruttoria fu affidata a un funzionario di basso livello, il sottotenente Listengort, che la condusse in modo sciatto e svogliato? La temporanea revisione della sentenza da parte della Corte suprema dimostra che esistevano margini di opposizione personali? Purtroppo, la «microstoria » di Chinsky non ha risposte convincenti per queste domande.

Fabio Bettanin