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Peter Fritzsche – Vita e morte nel Terzo Reich – 2010

Peter Fritzsche
Roma-Bari, Laterza, VI-341 pp., € 20,00 (ed. or. Cambridge Ma, 2008)

Anno di pubblicazione: 2010

«Fino a che punto i tedeschi, negli anni 1943-1945, divennero nazisti?» (p. 8). Il sostegno a Hitler fu dettato da mero opportunismo o da più incisive affinità ideologiche? Nel rispondere a tale interrogativo, Fritzsche si colloca tra quanti ritengono che quel consenso sia stato reale, sollecitato da sincera adesione, sorta e cresciuta in seno ai programmi di «conversione» addottati dal nazismo per indurre i tedeschi a credere nella Volksgemeinschaft (comunità del popolo). In particolare, la pedagogia dei «campi comunitari» li avrebbe indotti a riflettere sul passaggio da «tedeschi» a «nazisti», «sull’importanza di allinearsi, sull’opportunità di stare al gioco e sulle responsabilità dell’individuo nei confronti della collettività» (p. 10). Le difficoltà economiche vissute dalla Germania di quegli anni furono un terreno fertile e favorevole al germogliare e lievitare delle idee naziste.Per misurare la forza del consenso al Terzo Reich, Fritzsche si avvale dell’analisi dei diari e degli scambi epistolari di tedeschi comuni e crede di ravvisare nelle loro parole una forte identificazione nel nazismo e nella preoccupazione di una nuova «catastrofe», di un nuovo «novembre 1918». Dall’analisi dell’assunzione dei segni esteriori di appartenenza al nazismo a quella della concreta mobilitazione dei tedeschi, l’a. analizza un ampio spettro di comportamenti, non senza cogliere il diverso grado di adesione dei singoli al nazismo e la fluidità delle loro posizioni, che nel corso del tempo avrebbero conosciuto significative evoluzioni. La messa in primo piano della questione cruciale del «consenso» al Terzo Reich ripropone un problema certamente ineludibile. È convincente che il nazismo non si sia retto unicamente sull’oppressione, né sull’uso terroristico della forza: il problema è quando da affermazioni generali come questa si passa poi a vagliare l’imponderabile etica delle intenzioni dei singoli. Inoltre, nella sbrigatività con cui l’a. estende a comportamenti collettivi ciò che gli pare di riscontrare in specifici soggetti sta uno dei punti di debolezza maggiori del suo testo: paradigmatiche sono espressioni come quella secondo cui la maggioranza dei tedeschi avrebbe cercato di «convertirsi» ai progetti nazisti. Ciò che egli deduce dall’analisi delle memorie vagliate. L’assunzione – a volte – acritica delle testimonianze gli fa peraltro fare affermazioni che appiattiscono l’articolato mondo della galassia concentrazionaria nazista. Per esempio, afferma che la maggior parte dei lavoratori mandati «coattamente» nel Reich «lavorava in condizioni terribili, spesso sotto sorveglianza armata e con razioni alimentari insufficienti» (p. 216). Un’asserzione assai lapidaria, che non rende conto della poliedricità della condizione dei lavoratori tedeschi e stranieri nella Germania nazista. Se lo sforzo di analisi dell’ampio spettro dei contesti in cui i comportamenti individuali si articolarono rimane, insomma, il punto di maggiore forza del libro, non si può al tempo stesso non rimanere perplessi di fronte alla opposta e parallela monoliticità dei giudizi che Fritzsche esprime in un numero considerevole di casi.

Giovanna D’Amico