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Samarcanda. Storie in una città dal 1945 a oggi

Marco Buttino
Roma, Viella, 383 pp., € 29,00

Anno di pubblicazione: 2015

Solo il nome di questa città antica di 2500 anni, il nome di Samarcanda, evoca in ciascuno di noi suggestioni ed emozioni che prescindono dall’averla o meno mai veduta realmente. Ed è attraverso i vicoli, i mahalla (i quartieri della «città vecchia»), le moschee, i palazzi di epoca coloniale russa e poi sovietica che l’a., grazie a un impianto coerente e a uno stile estremamente limpido, ci conduce per mano con grazia rigorosa e profonda competenza. Buttino mette a frutto in questo volume i lunghi periodi trascorsi in prima persona in Uzbekistan, le lunghe ricerche in archivio, le interviste, le bellissime fotografie raccolte sul campo. E con grande serietà scientifica narra le ripetute trasformazioni ur- banistiche che questa città ha subito alla luce dei diversi destini delle minoranze etniche qui presenti con una voce narrante che è ora da storico, ora da antropologo e, ancora, da sociologo. L’approccio multidisciplinare, mai tradito durante il percorso del volume, consente all’a. una dettagliata ricostruzione della storia politica, sociale, urbanistica, ar- chitettonica di Samarcanda dai tempi del Governatorato russo sino agli anni seguenti il crollo dell’Urss, quando il paese diventa, per la prima volta, indipendente.
La città subisce trasformazioni profonde nell’arco di più di un secolo e mezzo che ben riflettono le esigenze politiche di chi la conquista e la governa e che profondamente incidono sulle etnie che vi hanno coabitato – russi, giunti a più riprese a partire dal 1860, tajiki, uzbechi, ebrei di Bukhara, coreani e polacchi deportati rispettivamente nel 1937 e nel 1939, tatari di Crimea e turchi meshketi provenienti dal Caucaso, la popolazione zigana dei mugat, irani, armeni – alcune delle quali oggi nemmeno quasi più presenti sul suo territorio (in primis russi e tajiki).
La tesi interpretativa di fondo della ricerca si colloca in modo originale nel dibattito che anima gli studi sul rapporto esistente o meno tra il colonialismo di epoca russa e quello del periodo sovietico giungendo ad affermare che anche quest’ultimo può essere considerato caratterizzato da un lato – alla stregua del primo – da una costante dipenden- za da Mosca, dall’altro però da un’inedita politica di creazione e coinvolgimento di gruppi dirigenti locali in una misura senza pari nelle situazioni coloniali tradizionali. Proprio queste élite locali, incaricate della mediazione con una società composita, profondamente religiosa, sia nella sua componente musulmana che in quella ebraica, e in larga parte ostile alle politiche di sovietizzazione/modernizzazione, riuscirono con i decenni a ritagliarsi ampi margini di un potere effettivo che permise loro di transitare il paese a un’epoca post- sovietica con il risultato di una finale supremazia della componente uzbeca. Samarcanda diventa così per l’a. una sorta di laboratorio nel quale condurre una riflessione ben più ampia sulle dinamiche interne al regime e al modo in cui ciascuna repubblica, Uzbekistan compreso, si ritrovò a essere sovietica sì ma del tutto a modo suo infrangendo una volta ancora la visione mitica di un’Unione Sovietica fondata su un rigido ordine gerarchico e su un predominio assoluto della macchina dello Stato.

Elena Dundovich