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Silvia Salvatici – Contadine dell’Italia fascista: presenze, ruoli, immagini, Presentazione di R. Zangheri – 1999

Silvia Salvatici
Rosenberg & Sellier, Torino

Anno di pubblicazione: 1999

Durante il periodo fascista, e in particolare negli anni della grande depressione, per la sopravvivenza delle famiglie contadine divenne sempre più importante il lavoro delle donne. Per dimostrare questa tesi Silvia Salvatici non può utilizzare i censimenti, che notoriamente sottovalutano le attive in agricoltura, e dunque si rivolge ad una fonte di tipo qualitativo, le monografie di famiglie agricole pubblicate dall’Inea. Neppure qui è assente quell’ideologia del maschio breadwinner che mette in ombra il contributo lavorativo della donna, ma grazie alla gran mole di informazioni sulle singole famiglie non è difficile aggirare l’ostacolo. Il libro dedica un capitolo ad ognuno dei principali tipi di impresa dell’agricoltura italiana – colonia, conduzione diretta e conduzione a salariati – e tiene conto di tutte le Italie agricole, dalle risaie del vercellese al latifondo cerealicolo siciliano.
Con modalità diverse nei diversi contesti furono soprattutto le donne a sostenere il peso della crisi economica, lavorando di più sia dentro che fuori casa. Si prenda l’esempio delle famiglie coloniche: la cura della bassa corte e dell’orto erano da sempre attività femminili, tanto che il Mazzini, nella relazione per l’Inchiesta agraria, le definiva “faccende quasi casalinghe”. Dalle indagini dell’Inea si apprende però che, per il colono del trevigiano come per il mezzadro del pisano, negli anni trenta queste risorse erano diventate molto importanti, visto che fornivano al bilancio familiare uno dei più rilevanti introiti monetari. Al maggior contributo lavorativo non corrispose però alcun mutamento nel ruolo tradizionalmente assegnato alle donne nella società contadina: esemplare al riguardo è la continuità delle pratiche successorie attestata da un sondaggio negli archivi notarili di alcune zone d’Italia, del quale si dà conto nell’ultimo capitolo del libro.
Nelle campagne il lavoro femminile era sempre stato “una presenza forte, ma senza valore” (l’espressione è di Alessandra Pescarolo) e l’ideologia fascista non poté che irrigidire il modello tradizionale (si pensi solo al coefficiente Serpieri) ed insieme approfondire il divario culturale e materiale tra città e campagna. Proprio nelle campagne infatti si registrò il massimo distacco tra l’esperienza reale di vita delle donne e l’immagine femminile propagandata dal fascismo, incentrata sul valore della maternità e della domesticità. Questo scarto, scrive la Salvatici, ci spiega perché nel dopoguerra le donne siano state in prima fila, insieme ai giovani, nell’abbandono delle campagne.
Il richiamo ad una maggiore attenzione per il contesto rurale negli studi sulla storia delle donne nell’Italia contemporanea sembra del tutto condivisibile e il libro è un contributo utile in questa direzione, pur rimanendo forse troppo legato alla sua fonte.

Mirella Scardozzi