Cerca

Silvio Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale. 1917-1991

Silvio
Torino, Einaudi, pp. XXIII-419, € 35,00

Anno di pubblicazione: 2012

Che il comunismo abbia avuto un ruolo centrale nel determinare la storia del XX
secolo è indiscusso. Le storie generali del comunismo, e i molti lavori sulla sua fase finale
pubblicati nell’ultimo decennio, hanno avuto il merito di riaprire su di esso una riflessione che rischiava di essere soffocata dall’approccio monodimensionale e monocausale
sintetizzato dalla formula del «passato di una illusione». I regimi comunisti sono stati nel
migliore dei casi oppressivi e autoritari, ma ciò non esclude che le promesse messianiche
di rivoluzione mondiale abbiano messo in moto forze storiche reali, fra gli amici e anche
fra i nemici. In una visione estrema di questo processo Hobsbawm ha sostenuto ne Il
secolo breve che l’Ottobre ha salvato «i propri nemici, sia nella guerra, […] sia nella pace,
procurando al capitalismo dopo la seconda guerra mondiale l’incentivo e la paura che lo
portarono a riformarsi» (p. 20). Il lavoro di Pons parte da una prospettiva simile: «l’impatto sullo sviluppo del mondo globale è stato forse l’autentico lascito del comunismo
nella nostra epoca» (p. VIII). Dopo centinaia di pagine dense di fatti e di analisi, giunge a
conclusioni pessimistiche sulla «combinazione tra politica di potenza, warfare e missione
universalistica», che connotò il comunismo come «soggetto alternativo della politica internazionale», ma creò anche «antinomie» che affievolirono progressivamente la capacità
di influire sui fenomeni globali (p. 402).
Durante la prima guerra mondiale, la convinzione che il mondo borghese fosse condannato, e che la sua fine sarebbe giunta in un crescendo di guerre civili e lotte sociali, si
diffuse anche all’esterno di piccole minoranze comuniste. In questa prospettiva, la decisione dei bolscevichi di formare uno «Stato-potenza», la cui missione era la rivoluzione
internazionale, e non uno «Stato-nazione», impegnato nel consolidamento della Russia
sovietica, aveva una sua logica. Presto giunsero le repliche della storia: le rivoluzioni fallite,
l’impotenza settaria del Comintern, l’arrancare dell’industrializzazione, la mancata diffusione della rivoluzione in Asia e Africa, l’ascesa dei regimi fascisti. Pons insiste a ragione
sull’incapacità del comunismo internazionale di imparare dagli errori. O di trovare nella
vittoria della seconda guerra mondiale la spinta per cercare nuove basi di consenso e un
diverso ruolo internazionale. Il risultato fu la formazione di un «impero esterno» debole,
con un centro arretrato, che tuttavia restava il «baricentro» della «rivoluzione mondiale»,
e la rinuncia a formulare un «disegno strategico per i comunisti occidentali» (p. 248). Il
rassegne e letture 74
capitalismo postbellico continuò a essere analizzato «attraverso le lenti del crollo economico, della fascistizzazione, della guerra» (p. 260).
Che «Il tempo del declino (1953-1968)» e poi quello della «crisi (1968-1991)» siano
giunti nel momento del trionfo non stupisce, perché altri imperi hanno subito la stessa
sorte. Il ruolo di superpotenza assunto dall’Unione sovietica non fu mai sostenuto da adeguati strumenti economici e intellettuali. La dettagliata analisi di Pons giustifica appieno
l’affermazione che «l’erosione politica, culturale e simbolica del comunismo precedette,
e non seguì, la sua crisi conclamata come sistema economico» (p. 403). Avrebbe forse
meritato ancor maggiore attenzione l’incapacità dei comunismi nazionali di colmare il
vuoto di legittimazione e teorico aperto dalla perdita di egemonia del comunismo sovietico. Le vie nazionali al socialismo imboccate da vari regimi negli anni ’60 accrebbero per
lo più il loro tasso di autoritarismo. La Cina comunista e Cuba furono considerate poli
alternativi solo da frange di estremisti in Occidente. L’eurocomunismo rinunciò presto a
esercitare un ruolo oltre i confini dell’Europa occidentale, condannandosi all’insignificanza. Il variegato fenomeno del dissenso offrì alternative morali al dilagante cinismo, vera
talpa della storia che fece crollare l’edificio del comunismo, ma non soluzioni politiche
alternative. Il quadro complessivo tracciato da Pons riesce a coniugare con efficacia l’attenzione ai fatti e ai protagonisti con sintesi di lungo periodo, e a giustificare l’ossimoro
dell’epilogo, che si apre con la dichiarazione: «Il crollo dell’Unione Sovietica non era
inevitabile. Fu Gorbačëv a provocarlo involontariamente» (p. 399); e si chiude con la
constatazione che «l’impatto della globalizzazione fu devastante sul comunismo perché
le sue ragioni di essere e le sue identità erano già logore e inservibili» (p. 407). Solo un
impegno prometeico per restituire al comunismo internazionale il senso di una missione storica smarrito da quando si era dissipata l’eredità della seconda guerra mondiale,
avrebbe potuto salvare l’Unione Sovietica e il blocco socialista. La perestrojka imboccò la
direzione opposta. Gorbačëv e i suoi collaboratori, e con loro molti leader dei paesi socialisti, erano giunti, già prima del fatidico 1989, alla conclusione che «la definizione di un
ruolo per il movimento comunista costituisse un compito ormai impraticabile» (p. 389).
Non era di questo parere Deng Xiaoping, le cui riforme, avviate quasi in contemporanea
alla perestrojka, dettero risultati opposti. La Cina odierna è molte cose assieme: uno Statopotenza che non esita a ricorrere alla repressione, e affida la presenza internazionale alla
penetrazione economica; uno Stato-nazione, che ha riscoperto gli interessi nazionali e la
millenaria cultura confuciana come strumento di coesione interna; un autoritarismo di
mercato, nel quale lo Stato svolge un ruolo centrale, ma che già sperimenta i problemi
sociali del neocapitalismo; un paese che sceglie i propri dirigenti ai congressi del Partito
comunista. È sufficiente a considerarlo un paese comunista? Probabilmente no, e questa
sembra essere anche l’opinione di Pons. Ma come potremmo spiegarlo a Xi Jinping?

Fabio Bettanin