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Simon Levis Sullam – L’archivio antiebraico. Il linguaggio dell’antisemitismo moderno, – 2008

Simon Levis Sullam
Roma-Bari, Laterza, XVII-101 pp., euro 14,00

Anno di pubblicazione: 2008

«Archivio» è lemma foucaultiano, ed il riferimento metodologico all’archeologia dei saperi e dei linguaggi viene rivendicato in esordio dall’a., per definire l’oggetto del suo saggio. L’antisemitismo viene considerato come pratica discorsiva, o «insieme di relazioni […] che il discorso deve effettuare per poter parlare di questi e di quegli oggetti, per poterli trattare, nominare, analizzare» (p. 11). Storicamente, la pratica discorsiva divenne ideologia di partito e di Stato, trasformandosi in programma politico e infine in azione. A Foucault viene affiancato Derrida, con la sua tesi sull’invenzione di un evento all’interno di una serie di regole riconosciute, applicata qui da Levis Sullam come «invenzione dell’altro», dell’ebreo. Infine si fa appello alle teorie sulle funzioni performative del linguaggio elaborate da Austin e Skinner. Si potrebbe discutere se tra Skinner e Austin, da un lato, e Foucault e Derrida dall’altro, vi sia congruenza e se entrambi gli approcci metodologici possano essere contemporaneamente utilizzati per comprendere i processi di «verbalizzazione di pregiudizi» (p. 89); si preferisce invece ribadire che «una metodologia storica è essenzialmente una discussione sul modo corretto di interpretare le fonti pervenuteci» (A. Momigliano, Le regole del gioco nello studio della storia antica, in Sesto contributo alla storia degli studi classici, Roma, 1980). La scelta del metodo è giustificata solo se si è capaci di dimostrare che essa insegna a porre domande specifiche alle fonti. Scelta che comunque non determina la risposta di quelle fonti, in questo caso che le opere di Voltaire, Marx, Toussenel, Marr, Drumont… sino ai Protocolli possano essere amalgamate in un paradigma unitario. La specificità di ogni testo viene così perduta, ed anche il modello interpretativo appare poco convincente. La posizione di Voltaire e degli scrittori dell’Illuminismo rappresenterebbe l’intero repertorio della polemica tradizionale antigiudaica. Ma già prima del 1789-91 la polemica contro l’emancipazione non fu opera di cultori di Voltaire, ma essenzialmente di esponenti cattolici, per non parlare della controffensiva in età napoleonica. Questi autori rappresentano le radici cristiane dell’antisemitismo politico cattolico e protestante (Miccoli). Anche l’anticapitalismo antiebraico del socialista fourierista Toussenel ne fu largamente dipendente: stupisce perciò di vedere accostato al suo nome quello di Marx (la lettura del testo marxiano appare inoltre poco convincente). L’analisi delle fonti del periodo che va dalla crisi di fine secolo ai fascismi euro pei è più solida, ma sarebbe stato giusto ricordare la preistoria francese dei Protocolli, che rinvia ancora al nesso tra Drumont, Joly e Toussenel. L’a. conclude con il terzo capitolo, sobrio e condivisibile, sul ritorno degli stereotipi della tradizione antigiudaica nei linguaggi dell’antisionismo, sin dalla fondazione dello Stato di Israele, nel 1948, e in anni più recenti persino nelle legittime critiche alla politica dei governi di quel paese. Israele rimane l’unico Stato di cui si contesta il diritto di esistenza.

Michele Battini