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Simona Urso – Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano – 2003

Simona Urso
Venezia, Marsilio, pp. 238, euro 21,00

Anno di pubblicazione: 2003

L’immagine tradizionale che la storia ha consegnato di Margherita Sarfatti, una delle esponenti femminili di maggior rilievo della cultura italiana del primo Novecento, è largamente costruita intorno ad alcuni tratti biografici ? la veste mondana e di amante di Mussolini ? la cui accentuazione dovrebbe far riflettere gli storici sulla permanenza di antichi ordini simbolici. Volendo restituire al personaggio un’autonoma fisionomia culturale e la centralità che le spetta nell’elaborazione del mito messianico dello Stato fascista, Simona Urso ha optato per una biografia solo intellettuale, nella quale il privato ? all’opposto ? è indagato unicamente nelle sue nervature politiche. L’autrice guida il lettore attraverso la formazione giovanile della Sarfatti: il retaggio ebraico, la scoperta del Romanticismo ruskiniano e del modernismo cattolico mediata da Fradeletto e Fogazzaro, la militanza socialista ? priva però di un’alfabetizzazione marxista ? fino al decisivo incontro col vocianesimo. Tutte esperienze culturali che confluirono nell’utopia sarfattiana della ?città futura?, di un nuovo e rigenerato ordine politico rispondente alle autentiche ?gerarchie morali? del paese, che la guerra contribuì poi a identificare con lo Stato-comunità, espressione di una nazione intesa in senso organicista di cui, non le istituzioni rappresentative, bensì le élites intellettuali dovevano essere il collante culturale e politico. L’elaborazione teorica dello Stato fascista avrebbe dunque trovato nella Sarfatti collaboratrice del «Popolo d’Italia» un apporto essenziale, inferiore solo al contributo portato alla definizione di uno stile artistico nazionale capace di creare un’identità collettiva, e ? ultimo tassello ? all’ideazione del mito del Dux, quale apostolo e officiante della nuova religione civile dello Stato-comunità. Il quadro che emerge dall’analisi è di sicuro interesse, e non solo perché permette una migliore comprensione della Sarfatti operatrice culturale e artefice di tanti codici simbolici del fascismo; ma anche perché aiuta a leggere controluce l’itinerario compiuto da una parte almeno di quella generazione intellettuale, cresciuta nel solco dell’irrazionalismo e del vocianesimo politico, che contribuì a fornire un ?retroterra? ideologico al fascismo (p. 14). È allora ricco di stimoli alla ricerca il fatto che la delusione provata dalla Sarfatti di fronte all’irrigidirsi totalitario e burocratico del regime, che inficiava la missione civilizzatrice dei ?colti?, non ne mettesse in crisi la visione politica, inducendola semmai a ricercare altrove i germi di un’altra possibile ?città futura?, trovata ora in quell’America rooselvetiana che, seppure crogiolo di tante etnie differenti, era saldamente egemonizzata da un’intellettualità ebraico-cristiana decisa a farsi portatrice della propria civiltà nel mondo.

Catia Papa