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Sophie Nezri-Dufour – Primo Levi: una memoria ebraica del Novecento – 2002

Sophie Nezri-Dufour
Firenze, La Giuntina, pp. 226, euro 12,00

Anno di pubblicazione: 2002

Il profilo della monografia consiste nel ripercorrere la riflessione pubblica di Primo Levi come traccia per indagare il rapporto tra trauma personale e scrittura letteraria e civile.
Accolto come un lucido analista e come un quieto indagatore ? maggiormente sorretto dalla nitidezza del ricordo e dalla capacità distintiva degli eventi e dei significati ? l’impegno riflessivo di Primo Levi secondo Nezri-Dufour, è, invece, la testimonianza profonda della storia di un trauma ? sociale prima ancora che individuale o personale o ?privato?.
Il ritratto di Primo Levi che esce da questo testo attraverso l’analisi dei suoi scritti, e soprattutto delle sue conversazioni e delle sue ?riflessioni a voce alta? è in gran parte la resa dei conti con la fine di un mondo ? quello ebraico-laico – di quel ?mondo piccolo? su cui apparentemente Primo Levi ironizza in ?Argon?, il racconto di apertura de Il sistema periodico, e che rappresenta non solo il congedo da un sistema di relazioni e di caratteri. E’, infatti, soprattutto l’eclissi di un tipo umano, di uno stile di vita e della ?libertà di sceglierlo?. ?Dopo Auschwitz ? scrive Nezri-Dufour ? l’ebreo non era più libero di esserlo?. Per Primo Levi non era diverso. In questa veste l’indagine sulla fisionomia culturale della sua scrittura civile è anche un modo per interrogarsi sulla persistenza di una dimensione laica dell’identità, sul significato di una scrittura di testimonianza che è anche ? o si candida ad essere ? una riflessione generale sulla possibilità di costruire un’etica pubblica non finalistica e soprattutto non teologica.
L’esito alla fine è quello di una sconfitta. Non tanto per la tragica fine di Primo Levi, ma perché è la scommessa su cui aveva puntato la ricostruzione di una fisionomia pubblica a non riuscire.
?Tale era lo scopo leviano: ? scrive Nezri-Dufour ? validare la sua esperienza ad Auschwitz con una riflessione ulteriore che avrebbe incluso il dramma ebraico nella storia collettiva e, parallelamente, fatto di Auschwitz un riferimento storico, etico, e sociologico universale.? (p. 212)
Così, invece, alla fine non è stato. Perché lo sguardo vittimizzato e dunque caritativo sul superstite non induce riflessione pubblica, ma logica compensativa. Per cui alla fine davvero ? e non come possibile esito paventato, la dimensione è quella del marinaio di Coleridge.

David Bidussa