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Stefano Bottoni – Transilvania rossa. Il comunismo romeno e la questione nazionale (1944-1965) – 2007

Stefano Bottoni
Roma, Carocci, 238 pp., Euro 19,50

Anno di pubblicazione: 2007

Il fenomeno del nazionalcomunismo romeno di Ceasescu è da tempo oggetto di interesse da parte di storici e politologi. Questo volume però si occupa del ventennio precedente a Ceasescu, sulla base sia di uno spoglio sistematico degli archivi romeni e di indagini in quelli britannici, sovietici e ungheresi, sia di una conoscenza delle fonti edite e della letteratura storica, soprattutto in lingua romena e ungherese. La tesi di fondo dell’a. è che quanto avvenne con Ceasescu non deve essere interpretato «come il risultato di una deriva nazionalista [?] ma come la conseguenza inevitabile [?] di una compatibilità di natura non teoretica, ma programmatica fra bolscevismo (o suoi spezzoni ideologici) e progetto nazionale» (p. 12). Il programma nazionalista precedente il 1945 di uno Stato di romeni e per i romeni non si era potuto realizzare pienamente perché si era dovuto arrestare di fronte all’inviolabilità della proprietà privata: rimosso questo ostacolo, il regime comunista riuscì ad attuare quel programma coniugando il ricorso a mezzi coercitivi con la suggestione della palingenesi rivoluzionaria e di un processo di modernizzazione. Bottoni analizza la fase di costruzione del regime comunista, dominata dalla figura di Gheorghe Gheorghiu-Dej, suddividendone la lunga segreteria in tre periodi: gli anni della romenizzazione di un partito, precedentemente dominato da quadri provenienti dalle minoranze, e del riconoscimento governativo del carattere multinazionale dello Stato romeno e dell’applicazione della politica sovietica delle nazionalità in campo educativo e culturale (1945-1952); gli anni della Regione Autonoma Ungherese nella terre seclere, voluta fortemente da Stalin come affermazione del modello sovietico di autonomia territoriale sulla base di omogeneità nazionali (ma mi chiedo, non anche come strumento di pressione ricattatoria verso lo Stato romeno?), e della disponibilità di parte della cultura ungherese ad un’integrazione senza assimilazione nello Stato romeno (1952-1956); infine gli anni successivi ai fatti di Ungheria (1956-1965). In questa terza fase il regime, dando una lettura «etnica» della reazione popolare agli avvenimenti rivoluzionari, insicuro politicamente, consolidò l’identificazione della nazione «progressiva» con la maggioranza, orientando così la repressione soprattutto verso le minoranze (in primo luogo quella ungherese, ma anche quelle ebraica, tedesca, e cattolica), limitando sempre più l’autonomia della Regione Autonoma Ungherese e trasformandone la composizione etnica attraverso misure amministrative. Giustamente l’a. osserva che questo processo di «nazionalizzazione dello spirito pubblico e della vita culturale» fu presente in tutto il blocco sovietico e comportò anche il recupero della storiografia borghese utile a questo fine. Rimane da considerare il fatto che, a parte l’immediato dopoguerra, solo la Romania attuò una pulizia etnica (ebrei, tedeschi), seppure parziale, data l’impossibilità di liberarsi della componente ungherese: una specificità poco invidiabile.

Armando Pitassio