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Stefano Zenni, Storia del Jazz. Una prospettiva globale

Stefano Zenni
Viterbo, Stampa Alternativa, 607 pp., € 25,00

Anno di pubblicazione: 2012

Il libro inizia con un preludioche, da solo, dimostra quanto quest’opera (con bibliografia, mappe, cartine, indici di nomi e brani, una coda) sia di straordinario interesse e
utilità pure per gli addetti ai lavori, una tappa imprescindibile per chi voglia capire la storia
del jazz. Tuttavia, i diciassette capitoli che la compongono sono forse troppo appiattiti sui
primi decenni del ’900 e, di conseguenza, alcuni autori sono valorizzati più di altri. L’a.,
musicologo di enorme cultura e, al contrario di molti colleghi, capace di entrare negli
aspetti «tecnici» a partire dai sistemi armonici, affronta con versatilità stili ed epoche diverse (da New Orleans al jazz-rock, passando per il bebop e il free). Fornisce al lettore dati
sconosciuti soprattutto sulle origini del jazz, a cui dedica i primi due capitoli partendo da
una rivisitazione dei processi migratori, ed evidenzia errori che non sono a oggi considerati da studiosi pur accurati come Polillo, autore del fondamentale Jazz (I ed. ’75). Tra gli
aspetti centrali per cogliere la complessa natura del jazz, l’a. sottolinea lo studio della musica a stampa che, già tra gli anni ’10 e ’20, ha avuto «ampi risvolti anche nella diffusione
del blues», dimostrando che l’istinto dei neri (a cui si fa risalire il fulcro del jazz, l’improvvisazione) è da coniugare con un linguaggio in parte codificato. Questo aspetto rende «la
musica degli schiavi» non «come un tutto indistinto, ma come un mosaico di stili» (p. 9).
Una commistione, quella tra musica scritta e improvvisazione, che ha caratterizzato la quasi totalità delle innovazioni del jazz come, tra gli altri, hanno dimostrato Parker, Gillespie,
Monk, Coltrane, Miles Davis, Mingus, Ellington, Rollins e Armstrong.
L’a. spiega che per provare a capire il jazz e la molteplicità di generi che ne hanno influenzato la nascita e lo sviluppo si deve tener conto di variabili che, apparentemente, non
hanno un diretto rapporto con la musica. L’economia dello spettacolo; il diritto d’autore;
i meccanismi di diffusione della musica; l’intreccio tra i luoghi dell’intrattenimento e le
forme musicali o tra musica e politica; il potere dell’industria discografica; la creatività e
lo spirito imprenditoriale dei produttori; la relazione tra danza e jazz. Zenni scrive che il
libro «si propone di offrire la più ampia sintesi delle conoscenze analitiche oggi disponibili
sugli autori oggetto della discussione» ma, trattandosi «di un volume di storia e non di
analisi», rimanda l’approfondimento sulle «questioni analitiche e di linguaggio» al suo
precedente I segreti del jazz (2007), «di cui questo volume rappresenta una sorta di complemento storico» (p. 11). Altri due aspetti vanno rilevati nella «guida alla lettura» propo-
rassegne e letture 76
sta. Da una parte, non pensare la storia del jazz come una successione di stili, adottando al
contrario «una prospettiva di tipo sincronico, che esalta la ricchezza verticale degli eventi,
la loro sovrapposizione e il loro intrecciarsi» (p. 12). Dall’altra, considerare il jazz «da
una prospettiva globale», accettando che le migrazioni occupino «un rilievo peculiare» in
questo genere di «musica moderna» e aiutino a chiarire che esso non è solo «un fenomeno
americano che conosce varie appendici nel mondo» (p. 13), ma che è la musica globale
per eccellenza, caratterizzata da influenze che giungono dagli Usa al resto del mondo ma
che, nel contempo, arrivano agli Usa dagli altri continenti, Asia compresa.
Se il volume non vuole essere un’enciclopedia del jazz ispirata a criteri «tradizionali»,
ma una storia costruita attraverso categorie analitiche che tengano conto di tante variabili
(socio-culturali, etniche, razziali, economiche, politiche), visto come l’a. affronta precisi
ambiti musicali ed esprime giudizi su singoli autori (che sembrano basarsi solo sul gusto
personale), l’opera appare un po’ pretenziosa. Si resta perplessi quando Zenni sostiene che
Johansson «ha inaugurato l’estetica dell’intimismo nordico. Un’essenzialità cameristica e
ricercata circondata dal silenzio: la melodia assaporata con un tocco luminoso e raffinato,
l’improvvisazione per piccole, continue variazioni motiviche, un’armonia limpida dai riverberi policromi. Un suono che l’etichetta ECM trasformerà prima in scuola e infine in
maniera, replicato nei lavori di altri pianisti svedesi [Stenson e Svensson]. Artisti pregevoli
a cui però mancano lo humor malinconico e certe audacie sperimentali di Johansson»
(pp. 462 e 465). Un giudizio legittimo, ma privo di fondamento storico, se si pensa sia
alla distanza generazionale e musicale (macroscopiche) tra i tre pianisti, sia all’impossibilità di appiattire su un unico registro compositivo e sonoro l’intera produzione ECM, con
cui hanno inciso musicisti come Jarrett, Corea e Wheeler. Così come è discutibile dire
che il trio di Jarrett (con Peacock e DeJohnette) sia «nato come un organismo immobile,
dimentico delle conquiste di Bill Evans e Paul Bley» o che Petrucciani sia tra gli europei
che «hanno continuato a esprimersi in un linguaggio strettamente americano» (p. 506).
Anche se era necessario operare «tagli», colpisce la marginalità o l’assenza, in un libro
così denso, di strumentisti e compositori di grande rilevanza tra cui Liebman, citato solo
perché partner di Corea (p. 486); Beirach, menzionato per essere stato allievo di Tristano
(p. 327); Mehldau, uno dei più preparati e innovativi pianisti degli ultimi vent’anni che
può non piacere, ma non può essere ignorato. Queste scelte appaiono ancor più discutibili se si considera lo spazio che l’a. dà a musicisti come Morton, Sun Ra e Goodman
(per citarne alcuni), influenti ma non più rilevanti di altri, in un quadro che forse non
considera abbastanza l’epoca contemporanea (lo dimostra la coda, pp. 522-525) e dal
quale, inevitabilmente, non emergono musicisti di assoluta originalità per tecnica e suono, come Metheny, John Taylor, Towner, Marc Johnson, «formidabile» sì, ma citato solo
come componente dell’ultimo trio di Bill Evans (p. 502)

Andrea Ricciardi