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Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv

Irene Piazzoni
Roma, Carocci, 319 pp., € 19,00

Anno di pubblicazione: 2014

È una storia culturale delle televisioni italiane: quindi focalizzata soprattutto alla produzione del palinsesto. Ma non manca uno sguardo alle vicissitudini della politica, particolarmente attento e penetrante nel caso della vicenda Bernabei e ai suoi equilibrismi nella difficile fase di avvio del centrosinistra. Rimangono semmai un po’ in ombra le sfere della società e dell’economia, sostanzialmente confinate in lunghe note bibliografiche. Della proliferazione delle emittenti private negli anni ’70 (p. 130) si sottolinea il carattere improvvisato e incolto ma non la relazione con la nascita di una «terza Italia» popolata da piccole imprese e partite Iva. La fine di Carosello (p. 118) viene situata all’interno del processo legislativo di riforma della Rai ma non se ne colgono la portata epocale di svolta nel mercato pubblicitario e la decisiva sconfitta della televisione di Stato che con presunzione decide di giocarvi d’anticipo una partita destinata a mutarne il carattere di servizio pubblico. Il plurale del titolo viene invece mantenuto con efficacia nel ricostruire le vicende delle reti esterne al duopolio Rai-Mediaset (p. 203) anche se spiace che alle web tv siano concesse solo le sette pagine finali del libro. Il dibattito sociologico sulle tendenze attuali va infatti oltre le opinioni dei «neoapocalittici» − da Popper a Sartori – riportate dall’autrice e autorizza previsioni sulla fine della televisione generalista. Il pubblico che pure continua a seguirla (p. 258) è ormai composto dagli strati sociali dotati di minor capitale sociale: casalinghe e pensionati. Da questo punto di vista un maggiore uso dei rapporti del Servizio Opinioni della Rai e dei dati Auditel dalla metà degli anni ’80 in poi sarebbe stato utile per articolare socialmente e culturalmente un pubblico televisivo che non è mai stato indifferenziato: la potenza della televisione commerciale sta anzi nello studiarne i mutamenti molecolari interni, giorno dopo giorno, e nel predisporre contenuti sempre mirati per target specifici. Senza questa sponda sociologica molte pagine del libro rischiano di produrre un «effetto pagine gialle» con elenchi di programmi – stupisce però l’assenza di Campanile Sera, per esempio, che negli anni ’60 radica la Rai nella provincia italiana – visti come scelte editoriali anziché come catalizzatori di gusti degli spettatori. Dallas, per fare un altro esempio (p. 148), rappresenta un caso di studio esemplare nelle ricerche di sociologia dei media, a partire dal nome di Elihu Katz, che mette in evidenza la pluralità dei modi di ricezione del messaggio televisivo: potente antidoto alle demonizzazioni manichee e antimoderne del mezzo. Ma anche al sussiego intellettualistico cui talvolta le storie culturali indulgono quando parlano di media. Un ultimo appunto riguarda la scarsa presenza di una dimensione comparativa internazionale: indispensabile invece per mettere a fuoco la vera peculiarità del caso italiano che non risiede in una maggiore stupidità del pubblico, ma nella peggiore qualità del ceto politico.

Giovanni Gozzini