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Tony Judt – L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ’900 – 2009

Tony Judt
Roma-Bari, Laterza, 485 pp., euro 20,00 (ed. or. New York, 2008)

Anno di pubblicazione: 2009

«Papà, spiegami a che cosa serve la storia»: da questo memorabile incipit partiva L’apologia della storia di Marc Bloch. L’ultimo, splendido libro di Tony Judt segue le orme dello storico francese, ripresentando il problema della «legittimità della storia». Ponendosi più sul piano dell’analisi politico-intellettuale che su quello della riflessione metodologica, egli prende le mosse da un paradosso: la storia europea e americana degli ultimi trent’anni – diventata il territorio di un’ipertrofica espansione della memoria – è definita L’età dell’oblio. Con intelligenza critica e capacità narrativa (e non senza ironia), lo storico inglese affronta le «rimozioni del ’900», attraverso una raccolta di saggi pubblicati su varie riviste internazionali e divisi in quattro sezioni (Il cuore di tenebra, La politica del compromesso intellettuale, «Lost in translation»: luoghi e memorie, Il (mezzo) secolo americano).L’età dell’oblio rappresenta, per certi versi, il laboratorio in cui sono state concepite alcune delle coordinate interpretative della sua opera precedente, Dopoguerra. Tuttavia, è insieme qualcosa di più e qualcosa di diverso. Qualcosa di più, nel senso che i confini storico-geografici di quest’opera debordano dall’Europa post-1945, retrocedendo alla prima metà del ’900 e ampliandosi agli Stati Uniti e a Israele. Qualcosa di diverso, poiché l’a., rivelando i presupposti della sua visione storica, getta luce sui pregiudizi e sulle illusioni che orientano il dibattito pubblico sul passato recente e sull’attualità: dalla memoria del «male» all’analisi dei fallimenti di Stati, dai significati ideologici della globalizzazione all’importanza storica del welfare state europeo, dal ruolo sociale degli intellettuali alle implicazioni politiche delle guerre americane e israeliane.Come Judt dichiara nell’introduzione (inedita), Il mondo che abbiamo perduto, il suo idolo polemico è la convinzione che «il passato non ha nulla di interessante da insegnarci» – una convinzione largamente influente, a partire dalla fine del comunismo nel 1989-91, vissuta come il «trionfo dell’Occidente» e la «fine della Storia». In particolare, egli denuncia la «scellerata ostinazione contemporanea […] a cercare laboriosamente di dimenticare piuttosto che di ricordare, negare una continuità con il passato e gridare alla novità a ogni occasione possibile» (p. 4). La conoscenza del passato è stata sostituita dall’ossessione per la memoria, traducendosi in «una rappresentazione lapidaria del secolo» e legittimando un messaggio politico secondo cui la violenza estrema, che pur ha caratterizzato il ’900, sia per sempre relegata nel passato (p. 6).Secondo l’a., le «rimozioni del ’900» negli ultimi trent’anni – caratterizzati dall’illusione che una nuova età di pace, democrazia e benessere fosse alle porte – sono legate tanto alla crisi del ruolo sociale degli intellettuali quanto al declino politico dello Stato. Da qui scaturisce oggi – in un’epoca segnata invece da forme crescenti di insicurezza e paura collettive – la necessità di conoscere le domande e le risposte del passato: non a caso, a La questione sociale rediviva Judt dedica il suo Congedo.

Marco Bresciani