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Tra sogno e realtà. Ebrei tedeschi in Palestina (1920-1948)

Claudia Sonino
Milano, Guerini e Associati, 245 pp., € 21,50

Anno di pubblicazione: 2015

Hugo Bergmann, Gershom Scholem, Gabriele Tergit, Else Lasker-Schüler, Arnold
Zweig, Paul Mühsam: sono questi gli ebrei tedeschi presi in considerazione nel testo,
accomunati dall’aver vissuto un tempo più o meno lungo nella Palestina sotto il mandato
britannico e a ciascuno dei quali l’a. dedica un capitolo specifico del libro. La domanda
che sembra unire come un filo rosso le diverse vicende biografiche è in sostanza questa: ci
può essere ritorno dall’esilio? Detto meglio: Erezt Israel rappresenta il centro dell’esilio,
come era apparso per secoli all’immaginario diasporico, o non è piuttosto la sua straziante
e alienante continuazione?
Attraverso un sapiente scavo documentario di editi e inediti, di taccuini di viaggio,
corrispondenze e saggi dati alle stampe viventi i loro autori, il libro ci conduce attraverso
una galleria di ritratti, i cui percorsi biografici sono anche molto distanti l’uno dall’altro,
ma nei quali la dualità costitutiva della cultura d’origine – l’essere insieme ebrei e tedeschi
– non si risolve affatto con l’approdo in Palestina. Ancor più per coloro che, in Palestina,
arrivarono non in quanto costretti dalle persecuzioni razziali, ma animati dalla volontà di
scindere i propri legami con l’esangue ebraismo diasporico e di realizzare il «sogno» sionista.
Un «sogno» che il libro ci disvela intimamente contaminato con la cultura tedesca nei
confronti della quale il sionismo riteneva di contrapporsi come un alter ego irriducibile.
Si pensi alla vicenda, finora abbastanza nota ma qui ripercorsa in presa diretta, di Scholem,
segnata dalla delusione metafisica di un sionismo che in terra palestinese antepone
la costruzione dello Stato e la sperimentazione sociale alla sfera simbolica della rinascita
ebraica. Ma simili inquietudini innervano anche il percorso biografico di Zweig, l’araldo
tedesco di un sionismo a forti connotati socialisti che una volta stabilitosi nei territori
controllati dall’Yishuv stenta a sacrificare i valori non negoziabili della Bildung e riscopre
le proprie radici culturali, arrivando ad affermare che «il sionismo è una malattia da cui
si può guarire solo in Palestina» (p. 180). Anche Bergmann e Lasker-Schüler dovranno
ridimensionare i propri «sogni» di rigenerazione spirituale dell’ebraismo a contatto con
la dura realtà di un sionismo che in Palestina si esprimeva soprattutto in chiave politica,
dando spazio a un nazionalismo sciovinista agli antipodi della Gerusalemme umanista da
loro auspicata e sognata.
Ma delusione o disincanto segnano anche l’esperienza di coloro che in Palestina si
stabiliscono non per scelta volontaria, ma cacciati dalla violenza antisemita che ha stravolto
l’amata Germania. Le vicende di Tergit e di Mühsam rappresentano due posizioni
esistenziali opposte, ma complementari: la prima, dopo una provvisoria aliyah dal 1933 al
1938, decide di tornare in Europa, incapace di convivere con un ebraismo à part entière;
il secondo, invece, adotterà la Palestina come nuova patria, pur continuando a coltivare
interiormente quei valori della Bildung comuni a tutti i protagonisti del libro.

 Francesca Sofia