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Umberto Santino – La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi – 2000

Umberto Santino
Rubbettino, Soveria Mannelli

Anno di pubblicazione: 2000

Nonostante la prudenza nell’etichettare alcuni episodi criminali dell’età moderna come “fenomeni premafiosi” (e non propriamente mafiosi), la posizione dell’autore ha il pregio della chiarezza: esiste, ben prima dell’ultimo quarto dell’Ottocento, quando la mafia “si rivela in tutte le sue implicazioni all’interno del processo che accompagna la formazione dello Stato unitario italiano”, un fenomeno di criminalità organizzata considerato un antenato diretto della Mafia storica, perché riconducibile a “un blocco sociale a composizione transclassista, cementato da interessi, comportamenti e abiti mentali, egemonizzato dai soggetti illegali-legali […] (capimafia, politici, burocrati, imprenditori, tecnici, ecc.) definibili come borghesia mafiosa”. Un’ipotesi suggestiva – quando non del tutto condivisibile – che si inserisce in un dibattito storiografico assai articolato cui si fa riferimento all’interno dello scritto.
Altrettanto valida appare la tesi di Santino – sul solco degli studi relativi alla nascita del sistema economia-mondo capitalistico condotti da Braudel e da Wallerstein – di una genesi del fenomeno mafioso riconducibile alla particolarità di un capitalismo periferico come quello siciliano, un broker capitalism che avrebbe favorito l’intessersi di una rete di legami personali, clientelari e parastatali, modello per il successivo sviluppo di dinamiche più propriamente mafiose.
Desta perplessità, invece, il procedimento con cui l’autore ricostruisce una serie di situazioni cinque-seicentesche, descrive una galleria di personaggi “premafiosi”, si sforza di individuare in essi analogie, tratti comuni, corrispondenze sin troppo regolari che provino – a mo’ di parabola esemplificativa – la tesi di una diretta filiazione della mafia dalla criminalità baronale della Sicilia spagnola. La robusta geometria dell’ipotesi sociologica dell’autore si logora così nell’ansia di riscontrare esempi storici che la confermino e che – cosa ancora più discutibile – la esprimano in modo didascalico: l’avvelenamento di un bandito nel 1578, Rizzo di Saponara, viene paragonato all’assassinio di Gaspare Pisciotta, nelle dinamiche e nei moventi (il timore che egli possa fare rivelazioni compromettenti sui giochi di potere baronali cui era stato funzionale); di alcuni episodi di violenza (richiesta di “pizzo”, omicidi punitivi per aver derogato alla regola dell’omertà) si evidenzia l’analogia con le cronache recenti; il ruolo di paravento dell’Inquisizione alle malefatte dei baroni e dei loro sgherri viene più o meno implicitamente ricollegato a certe ambiguità della Chiesa siciliana dei nostri anni.
La solida base documentaria costruita da Santino non sembra approdare molto più in là di una raccolta aneddotica, in cui i singoli episodi faticano a riconnettersi lungo la trama di una coerente ricostruzione storica. L’impressione è quella di un gioco di specchi, di un vezzoso sistema di simmetrie eccessivamente serrate all’interno del quale i ragionamenti di Santino, solitamente brillanti, stentano a ritrovare il ritmo ampio e regolare del loro abituale respiro.

Fabio Gallina