Cerca

Un raccolto d’oro. Il saccheggio dei beni ebraici

Jan Tomasz Gross, con Irena Grudzinska Gross
Torino, Einaudi, 144 pp., € 20,00 (ed. or. Oxford, Oxford University Press, 2012, traduzione di Ludmila Ryba)

Anno di pubblicazione: 2016

Il volume prende avvio da una fotografia comparsa sulla stampa polacca nel 2008: vi sono ritratti alcuni contadini, uomini e donne, riuniti in circolo attorno a ossa umane e teschi. La foto fu scattata negli anni dopo la guerra a Treblinka, sulla collina formata dalle ceneri delle centinaia di migliaia di ebrei uccisi lì tra il 1942 e il 1943. È a queste vittime che appartengono le ossa: la gente del posto, in posa nell’immagine, le ha appena riesumate in cerca di oggetti preziosi sfuggiti alla rapina dei carnefici nazisti. Ispirati da questa foto, brevi e intensi capitoli ripercorrono così un aspetto specifico della storia della Shoah: il saccheggio dei beni ebraici che accompagnò il massacro di massa degli ebrei.
Con l’arrivo dei tedeschi e l’avvio della «Soluzione finale» in Polonia, una buona parte della popolazione approfittò della situazione per depredare gli ebrei. Ciò avvenne in vari modi: affiancando i nazisti nella caccia alle persone, denunciando gli ebrei in cambio di oro o denaro, ricattandoli, nascondendoli nelle case dietro pagamento, occupando le abitazioni dei ghetti lasciate vuote dai deportati e impossessandosi degli oggetti abbandonati. Questa attività non si esaurì con la fine della guerra: in quegli anni «il saccheggio delle proprietà degli ebrei aveva un ruolo importante nella circolazione dei beni: era una componente della vita socio-economica di quelle zone, e quindi un fatto sociale e non invece un’aberrazione comportamentale di un piccolo gruppo di individui moralmente corrotti» (p. 23).
Il volume si pone in continuità con i precedenti lavori dell’a. sulla partecipazione dei polacchi alla Shoah, che hanno suscitato vivaci polemiche perché mostrano un contesto sociale generalmente favorevole, in Polonia e non solo, all’eliminazione della presenza ebraica ed estendono i limiti cronologici dello sterminio anche agli anni del dopoguerra. Molto duro a questo proposito è il capitolo incentrato sul silenzio delle autorità ecclesiastiche locali e vaticane, che «non nasceva da smemoratezza o da pecche personali dei membri del clero», ma era frutto «di una presa di posizione cosciente, di una scelta deliberata frutto di una visione del mondo ben articolata» (p. 109) e, in generale, condivisa da una gran parte di popolazione per lo più cattolica.
Nelle conclusioni, l’a. propone delle riflessioni sulle responsabilità collettive che mettono sotto accusa non soltanto la società polacca, dal momento che «dal Dnepr fino al Canale della Manica, da Parigi fino a Salonicco nessuna classe sociale seppe resistere alla tentazione. E se ci si domandasse cosa hanno in comune un banchiere svizzero e un contadino polacco […] la risposta, solo leggermente esagerata, potrebbe essere: un dente d’oro strappato dalla mascella di un ebreo ucciso» (pp. 114-115). In questo senso, a suo parere, la fotografia dei contadini di Treblinka «oltre al disgusto desta in noi sgomento, perché non siamo fino in fondo certi di non avere davanti una foto del nostro album di famiglia» (p. 116).

Matteo Stefanori