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Una questione capitale. Di Vittorio in Campidoglio 1952- 1957

Ilaria Romeo, Giuseppe Sircana
presentazione di Walter Veltroni, introduzione di Adolfo Pepe, Roma, Ediesse, 134 pp., € 12,00

Anno di pubblicazione: 2015

L’interessante volume mette in luce un aspetto trascurato dell’attività di Di Vittorio:
quello di consigliere comunale tra il 1952 (fu il candidato più votato con 69.533 preferenze)
e il 1957 (quando morì cinque mesi dopo le nuove amministrative). Il libro, privo
di indice dei nomi, consta di due saggi (nei quali gli aa. analizzano vari aspetti di quella
stagione, inserendo le candidature di Di Vittorio nei differenti contesti politico-culturali
in cui maturarono) e di un’appendice di documenti, tra cui spiccano i suoi interventi in
consiglio comunale (ne scrive Romeo alle pp. 71-77) e tre lettere dell’aprile 1956.
Muovendo dall’operazione Sturzo, Sircana spiega perché le elezioni del 1952 furono
uno snodo centrale della politica romana (la sofferta scelta della Dc di non costruire un’alleanza
con Msi e monarchici) e un’anticipazione degli scenari nazionali che si sarebbero
delineati nelle elezioni politiche del 1953, quando fu sconfitta la «legge truffa» e tramontò
l’età degasperiana. In conseguenza del fallimento dell’iniziativa di Sturzo, voluta da Pio
XII e osteggiata da De Gasperi, maturò a sinistra «la concreta possibilità di conquistare
il Campidoglio» (p. 26). Pci e Psi (20 posti a testa in lista, 40 gli indipendenti, ci sono
D’Onofrio, Natoli, Lizzadri, Molè, Paola Borboni e Guttuso) puntarono su una lista
cittadina guidata dall’anziano Francesco Saverio Nitti, che aveva votato contro l’adesione
dell’Italia alla Nato e che, pur provenendo dalla classe dirigente liberale prefascista, era
ben visto dai socialcomunisti. Nitti costruì la lista con Nenni e Togliatti per opporsi alla
Dc romana, dipinta come garante di quei poteri forti disinteressati (o meglio ostili) a uno
sviluppo della città nel segno dell’equità sociale e della lotta all’affarismo. La candidatura
di Di Vittorio, dopo l’adesione della Camera del lavoro alla lista, fu patrocinata dalla
Federazione degli statali. Il suo valore aggiunto «non consiste soltanto nella sua vasta popolarità,
ma anche nella particolare attenzione che dedica ai problemi dei pubblici dipendenti
» (p. 31). La lista supera di due punti la Dc che, per il sistema degli apparentamenti,
ottiene però più del doppio dei seggi (39 a 16). La vittoria, tutt’altro che netta, obbliga la
Dc ad aprire una riflessione che coinvolge il quadro nazionale.
La ricandidatura, nel 1956, è quasi naturale per Di Vittorio, ma le modalità attraverso
cui è gestita dai vertici nazionali del Pci provocano in lui una profonda indignazione.
Accetta di essere il terzo in lista per disciplina di partito, è il più votato dagli elettori del
Pci. Le lettere che scrive al segretario della federazione romana Nannuzzi e alla segreteria,
a cui segue una sprezzante risposta di Togliatti, testimoniano il clima teso. Prima dell’invasione
dell’Ungheria e dell’VIII Congresso, Di Vittorio non è in linea con il segretario,
che lo teme per il vasto seguito di cui gode e perché incarna una diversa idea del socialismo
e dei rapporti con l’Urss. Ciò sarà evidente anche nei primi mesi del 1957, quando
maturerà l’espulsione di Giolitti dal Pci.

Andrea Ricciardi