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Le traduzioni di narrativa tedesca durante il fascismo

Natascia Barrale
Roma, Carocci, 306 pp., € 30,00

Anno di pubblicazione: 2012

Il volume deriva da una tesi di dottorato in Letteratura tedesca discussa presso l’Università di Palermo. Si tratta di un lavoro che tiene conto della riflessione storiografica (pur con alcune lacune) e che si rivela al contempo utile agli storici della cultura per entrare più addentro in certe questioni.
L’a. parte da un ampio affresco dell’attività di traduzione, non solo dal tedesco, che prese piede nella penisola nel periodo interbellico. Si confermano alcune nozioni e paradossi, riguardanti l’attenzione e l’efficacia dimostrate dal regime fascista per tutelare la cultura nazionale dagli «esotismi» più pericolosi. Tuttavia, come la storiografia ha dimostrato, la censura esisteva e sulle traduzioni di opere narrative poteva abbattersi con molti danni. Ciò spinse entrambe le categorie, ben prima del 1938 – quando l’autarchia diventò più severa – a far entrare in gioco complesse strategie di autodifesa, tra le quali l’esame preventivo dei libri e delle operazioni di autocensura che molto dovevano caratterizzare la «prassi traduttoria» degli anni ’30. In altri termini gli italiani conobbero sì con generosità la letteratura weimariana, con le sue immagini moderne e metropolitane, ma attraverso un efficiente filtro che impediva di indugiare troppo su tematiche come la disoccupazione, la crisi dei ceti medi e, soprattutto, la sessualità e l’emancipazione femminile. Molto utili, per quest’ultimo ambito, le note sulla traduzione dei romanzi di Vicky Baum operata da Barbara Allason, che evitò scrupolosamente di mettere in discussione istituti come il matrimonio e la maternità, tradendo le intenzioni dell’autrice. Altrettanto efficaci i tagli operati sui lavori di Fallada, quando questi indulgevano a un ritratto impietoso delle condizioni del ceto impiegatizio nel tornante della crisi mondiale. Mentre risultavano più «digeribili», anche di fronte alla censura fascista, i capolavori ambientati nella tragedia della Grande guerra, alla quale Mondadori tentò addirittura, dovendo desistere dopo poco tempo, di dedicare una corposa collana.
L’a. ripercorre venti anni di consumo letterario e la vicenda delle grandi collezioni che segnarono per l’Italia l’ingresso nella modernità culturale. Le sue specifiche competenze sono utili per comprendere nel concreto quale e quanta fu la modernità importata con le traduzioni, che si affermavano mentre in Germania era in vigore la letteratura della «nuova oggettività» con il suo impegno sociale e politico demonizzato dal nazismo. Le scelte dei traduttori, debitamente documentate, ci informano su quello che nell’Italia degli anni ’30 poteva e doveva passare attraverso il vaglio della censura: storie sì moderne, ma assolutamente non irrispettose dei valori a cui la Chiesa da una parte e il regime dall’altra mostravano di tenere maggiormente. Una modernità dunque fortemente filtrata induce a rivedere il giudizio d’insieme sulla esterofilia degli italiani dell’entre-deux-guerres. Un maggior numero di esempi, che prendesse in considerazione anche altri traduttori, avrebbe apportato ulteriori conoscenze per la risoluzione di questo nodo storiografico, superando i limiti che i tre esempi – pur assai illuminanti – lasciano sussistere.

Maria Pia Casalena