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Italiani mangiapatate. Fortuna e sfortuna della patata nel Belpaese

David Gentilcore
Bologna, il Mulino, 299 pp., € 29,00

Anno di pubblicazione: 2013

Fatte alcune eccezioni i prodotti che vennero dalle Americhe, dopo la cosiddetta
scoperta, impiegarono secoli prima di entrare nell’alimentazione degli italiani e perché
ciò avvenisse ci vollero situazioni eccezionali. Così è stato per il mais, per il pomodoro
e anche per la patata. Il motivo principale è che vennero considerati alimenti per gli
animali e non per gli uomini e di conseguenza il loro consumo poteva essere accettato,
eccezionalmente, solo nei periodi di carestie. E fu proprio un periodo di carestia, quello
che si abbatté sull’Europa, a causa del mutamento del clima dovuto, nel secondo decennio
dell’800, alle eruzioni di alcuni vulcani, fra cui la più importante fu quella nel 1815
del vulcano Tambora nell’isola indonesiana di Sumbawa. Gentilcore, docente di storia
moderna presso l’Università di Leicester e autore di un altro pregevole libro sulla storia del
pomodoro (La purpurea meraviglia, Garzanti, 2010), parte proprio da qui per analizzare
la fortuna di questo prodotto in Italia e lo fa in modo interessante e accurato, utilizzando
fonti e materiali diversi (tra cui ricettari, relazioni di agronomi, racconti di viaggiatori,
dati economici e sociali). Già nel ’700 alcuni riformatori avevano rimarcato l’importanza
della coltivazione e del consumo della patata per una serie di aspetti: essa è facilmente
coltivabile, senza aver bisogno di particolari condizioni climatiche; giunge facilmente a
maturazione; può essere lasciata sotto terra e tolta al momento del bisogno, restando al
riparo da eventuali razzie; inoltre nel rapporto con la quantità di area coltivata produce un
quantitativo di calorie e proteine maggiore di altre colture. Già altre volte, nel ’700, nei
momenti di carestia i contadini si erano nutriti di patate, per poi tornare ad alimentarsi
per quanto possibile di frumento e di mais. Anche questa volta si ritornò alle consuete
abitudini, anche perché le patate ricordavano il periodo di carestia da cui erano usciti. Ma
la mutazione oramai era in corso e «la seconda metà del secolo vide la patata affermarsi da
coltura sostitutiva a coltura di base in molte aree della penisola» (p. 94). Il suo consumo
avvenne attraverso delle preparazioni che si rifacevano a quelle già utilizzate, come gli
gnocchi, che fino ad allora erano approntati con farina, uova e altri ingredienti a cui d’ora
in poi si aggiungerà il tubero. Come sempre ci fu una notevole differenza fra il modo di
mangiarle dei ricchi – si pensi al raffinato e ricco gâteau di patate – e la gran massa di poveri.
L’incremento e il consumo venne determinato anche dalla crisi agricola dell’ultimo
quarto dell’800, allorché i prezzi del frumento e del mais aumentarono notevolmente,
a cui si aggiunse la odiata tassa sul macinato in vigore dal 1869. Nell’ultimo ventennio
dell’800 le patate non furono più un consumo relegato alle campagne, ma divenne un
prodotto popolare nelle città, venduto anche per strada. Questo libro ha il pregio, come
altri che si occupano seriamente di alimentazione, di conciliare la storia economica, con
quella dei consumi, della cultura e dell’alimentazione.

Alberto Sorbini