Cerca

Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento

Diego Lanza
Roma, Carocci, 254 pp., € 19,00

Anno di pubblicazione: 2013

Una caratteristica notevole degli studi sul mondo classico è l’impegno a riflettere
sulla storia e l’evoluzione della disciplina. Il ripensamento sugli uomini e le idee che hanno
segnato stagioni passate dell’indagine è infatti condizione indispensabile al farsi della
ricerca: per svolgere un lavoro consapevole, bisogna comprendere perché furono pensati
alcuni pensieri (ma anche, come ammoniva A. Momigliano riguardo alla stagione dei
totalitarismi, perché altri pensieri non vennero pensati).
L’a., grecista pavese, riunisce dieci lavori già apparsi in altre sedi, e affronta appunto
le grandi linee degli studi classici europei negli ultimi due secoli: si interroga sul loro
«senso», rifiuta la loro riduzione entro una nicchia specialistica, rivendica il loro valore
attuale. La riflessione è particolarmente utile in un momento difficile per l’antichistica,
travolta dalla crisi generale delle discipline umanistiche e minacciata alle radici: autorevoli
economisti sollecitano i giovani a non studiare più gli aoristi passivi, ma i mitocondri (A.
Ichino, «Corriere della Sera», 1 novembre 2013). L’arco cronologico muove dagli studi di
F. A. Wolf, iniziatore della moderna scienza dell’antichità: Lanza mette in luce la peculiarità
di questa disciplina che si voleva storica e totale, ma che ha ricercato la separatezza
come privilegio. Tale carattere elitario trovò massima espressione nella personalità di U.
von Wilamowitz Moellendorff, che produsse studi altissimi e pensò la filologia classica
in termini di fatto autarchici e corporativi. Contro questa impostazione si levò la condanna
di Nietzsche: «Che cosa ha a che fare col senso della vita la dottrina delle particelle
greche?» (Wir Philologen, 1875). Gli antichisti pretesero per sé un ruolo centrale nella
formazione delle élite, rivendicato ancora, tra le due guerre, nell’esperimento del «Terzo
Umanesimo» di W. Jaeger: in realtà, spesso essi finirono per fiancheggiare il potere (L.
Canfora, Ideologie del classicismo, Torino 1980). Tutto questo non poteva durare: già negli
anni ’30 del secolo scorso era sensibile il malessere dei filologi per il «deperire» della loro
«centralità pedagogica» (p. 122) e per il senso di estraniamento rispetto alla modernità.
Frattanto, sulla scia di Nietzsche, la cultura del ’900 si appropriava del mondo classico
«senza la mediazione dei filologi» (p. 137), ma piuttosto con gli strumenti dell’antropologia:
di qui l’interesse suscitato dalle ricerche di E. Dodds e J.-P. Vernant. Oggi, di fronte a
un mondo poco tenero con la «casta» degli specialisti, e con un mondo greco ormai lontano
dal suo «miracolo», per gli antichisti più accorti tornare a riflettere sui fondamenti
della propria disciplina è una necessità inderogabile. Lo sforzo di comprendere l’alterità
degli antichi appare la via per mantenerne viva la fecondità nel presente: deprecabile sarebbe
uno studio del mondo classico che si riducesse a «imparare le lingue dei morti» (p.
239). Il libro va dunque letto da chi ha a cuore la cultura: dagli antichisti, per una salutare
terapia, dagli altri, per comprendere che è comunque cattiva scelta quella di «liberarsi dei
Greci e dei Romani».

Carlo Franco