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Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica (prima, seconda e terza)

Salvatore Lupo
Roma, Donzelli, 250 pp., € 19,00

Anno di pubblicazione: 2013

La retorica, vuoto a perdere degli antipartiti, lungi dall’essere la soluzione è in realtà
il problema della vita politica italiana dell’ultimo ventennio. Guardando più indietro, è il
tema costante della retorica pubblica dell’Italia repubblicana (della prima, della seconda
e, per come si sta dispiegando, anche della terza). Sono, rispettivamente, la conclusione e
il profilo argomentativo che propone Salvatore Lupo in questo suo libro, apparentemente
leggero, in realtà molto denso. L’a., infatti, lo organizza sulla ricostruzione dell’idea di
antipartito, un’idea precisa e, spiega e dimostra, che non è solo il frutto dei numerosi
scandali che ultimamente hanno caratterizzato la cronaca politico-giudiziaria, ma è quasi
un elemento costitutivo e caratterizzante della vita politica del nostro paese, con radici
ben più profonde di quanto si possa pensare. Idea che ha una sua prima esposizione nella
riflessione politica di Giuseppe Bottai, che la teorizza e la propone sulla sua rivista «Primato
» nel maggio 1943, per poi passare nella retorica dell’antipolitica della neonata Repubblica
italiana con Giuseppe Maranini, poi (più espressamente) con Giovannino Guareschi.
Lupo precisa che sbaglieremmo a considerare quelle espressioni come sintomi del
rifiuto della politica. In realtà, essi si presentano come antipartito più che antipolitica, e
intorno a questa categoria definiscono i programmi, ma soprattutto una retorica, l’essenza
di una retorica e di una mentalità. A lungo espressione del linguaggio e dell’immaginario
politico delle diverse anime della destra italiana della prima Repubblica, quei movimenti,
chiarisce Lupo, hanno avuto addirittura la pretesa di rinnovarli alla radice, innescando il
«mito della nuova politica», facendo appelli a una società civile spesso mitica, contrapposta
a una classe politica individuata come unica causa dei mali del paese e, quindi, da
cancellare. La critica al sistema dei partiti, almeno fino agli anni ’60, viene essenzialmente
da destra. Ma, osserva Lupo, la situazione poi si modifica. Se per un lungo trentennio la
politica dei partiti aveva saputo interpretare e sollecitare il cambiamento o, almeno, auspicarlo,
nel corso degli anni ’70 questa condizione si trasforma. Il mondo dei partiti diventa
sempre più autoreferenziale, quello che era un patrimonio culturale e un segno della cultura
della destra acquista un carattere trasversale. A partire da quel momento, la critica ai
partiti diviene tema e linguaggio trasversale tra destra e sinistra, mentre i partiti diventano
sempre più macchine autoriferite, incapaci di rappresentare e portare al proprio interno le
sollecitazioni di rinnovamento. Una condizione che poi, negli anni ’90, esplode. Da allora
i partiti appaiono attori privi di futuro. In realtà, ripete Lupo, essi sono vittime della loro
stessa incapacità di essere dentro le trasformazioni sociali che hanno attraversato la società
italiana e, per questo, sono percepiti come un «peso» di cui liberarsi.

David Bidussa