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26 gennaio 1994

Antonio Gibelli
Roma-Bari, Laterza, 263 pp., € 18,00

Anno di pubblicazione: 2018

Il libro di Antonio Gibelli, uscito nella collana «10 giorni che hanno fatto l’Italia», considera la discesa in campo di Berlusconi una data fondante. Il post-Repubblica dei partiti è quindi un eterno ritorno, una soluzione di continuità lacerante e drammatica. L’a. dedica belle pagine all’analisi di un’espressione così polisemica come discesa in campo. Rinvia al mimetismo del conflitto aperto, alla piena esplicitazione come alla sublimazione nello sport, per poi investire il politico, nel caso di Berlusconi strettamente intrecciate. Tanto che la sua formazione di uomo pubblico si comprende più che nell’impegno a trasformare l’originario pluralismo delle tv libere in monopolio con la guida del Milan, risollevato dalla polvere dei primi anni ’80 e condotto alle stelle, per poi riprecipitare nella crisi ed essere ceduto ai cinesi. Nel Milan si riassume tutta la parabola pubblica del tycoon lombardo e quindi il suo ventennio.
Nel 26 gennaio 1994 Gibelli intravede una discontinuità null’affatto positiva, per- ché trionfo dell’individualismo egoistico, rappresentato al meglio dall’imprenditore lombardo, di contro alle basi solidaristiche della Repubblica. L’impegno politico di Silvio Berlusconi altro non sarebbe stato che una furbata finalizzata alla difesa della propria «roba», sia delle televisioni sia della cornice neoliberista e consumistica, che ne era il substrato culturale. In effetti, i nove minuti della cassetta registrata furono preceduti dall’annuncio in un supermercato del voto a Fini a Roma.
Berlusconi però non è comprensibile senza il prima: dalla tragica conclusione della Repubblica dei partiti, quando le Brigate rosse riuscirono a far prevalere le forze statiche e immobili, alla lunga agonia, tematizzata da Berlinguer fin dal 1981; dal rimescolamento successivo alla fine del socialismo reale al traghettamento guidato da Ciampi con i postcomunisti che vollero restare in mezzo al guado, profondamente divisi sul suo senso politico. Anche la democrazia del leader non fu una caratteristica del populismo in salsa milanese, ma frutto di una lunga evoluzione dei sistemi democratici, in Italia già percepibile negli anni ’60 con Ugo La Malfa, coi capi dei movimenti del Sessantotto, con Berlinguer, con Craxi, tutti coabitanti con i rispettivi partiti e movimenti ideologici (paradossalmente fu proprio la leadership di Craxi a intrecciarsi col Psi in modo assai più stringente, tanto da morire politicamente insieme). La novità di Berlusconi fu pertanto il partito personale (per richiamare l’analisi di Mauro Calise). Provocò ciò con cui aveva motivato la sua discesa in campo: il trionfo di chi intendeva «trasformare il Paese in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna» (p. 181), realizzato non dai postcomunisti ma da un altro partito personale il cui conflitto di interesse non investiva più la tv, ma la rete.
Il 25-26 febbraio 2013 il cavaliere, che aveva avviato la transizione dal sistema dei partiti ideologici di massa a una nuova «incompiuta», per parafrasare Calamandrei, dovette cedere lo scettro. Nel 1994 iniziò un ventennio di sperimentazioni, con la più incerta democrazia liberale esistente, laboratorio del rimescolio politico nelle società contemporanee.

Paolo Soddu