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A Political History of National Citizenship and Identity in Italy, 1861-1950

Sabina Donati
Stanford, CA, Stanford University Press, xvi -406 pp., $ 65,00

Anno di pubblicazione: 2013

Da diversi anni storici, sociologi e politologi sono impegnati nella ricerca sulle politiche di cittadinanza e nazionalità. È una questione di enorme attualità ed esiste ormai una vasta bibliografia sull’argomento, ma nel caso dell’Italia manca ancora uno studio organico e complessivo che copra tutto l’arco della storia unitaria. Purtroppo questo libro non serve a questo scopo. Fastidiosamente verboso, il volume vorrebbe spiegare i rapporti tra leggi sulla cittadinanza e idee di nazione in Italia (alla luce in particolare degli studi di Rogers Brubaker e Patrick Weil su Francia e Germania), ma anche analizzare la cittadinanza in senso più esteso. Considerata la complessità delle tematiche, questa non è una buona idea. L’a. finisce per descrivere, a volte confusamente, l’evoluzione della legislazione sulla cittadinanza italiana in relazione all’idea di nazionalità, mentre non aggiunge niente di nuovo su questioni di diritti politico-sociali e tematiche identitarie che non hanno comunque rilevanza per la comprensione di come e perché lo Stato italiano ha storicamente definito i criteri di inclusione o esclusione dalla cittadinanza nazionale. Nonostante il vasto numero di fonti primarie consultate negli archivi italiani, la lunga bibliografia e lo sforzo di includere anche la legislazione sui soggetti coloniali, l’a. non sembra però essere a conoscenza degli studi di Alberto Mario Banti e Carlo Bersani che hanno già mostrato che fin dal Risorgimento la concezione della nazione italiana è di tipo etnoculturale e la cittadinanza è attribuita principalmente sulla base della filiazione (ius sanguinis). I problemi del libro sono particolarmente evidenti nei capitoli in cui l’a. esamina la questione della cittadinanza femminile includendovi però anche i pregiudizi antimeridionali e l’antisemitismo e facendone così delle categorie residuali, neppure nominate negli strani titoli di questi capitoli. In ogni caso, qual è la rilevanza di questi pregiudizi nel periodo liberale dal momento che non ebbero alcuna ripercussione sulla cittadinanza degli abitanti delle regioni meridionali e/o di religione ebraica? Di contro, la legislazione razzista antisemita del fascismo meritava certamente più che le poche pagine dedicatevi. Infine non si comprende perché l’a. si sia fermata al 1950. Il vero termine ad quem di questa storia dovrebbe essere la legge sulla cittadinanza del 1992, che ha rafforzato ulteriormente lo ius sanguinis (alle spese dello ius soli come hanno rilevato Giovanna Zincone e Guido Tintori) e reso più difficile la naturalizzazione nel caso di residenti la cui origine non sia l’Unione Europea. Si tratta di una legge che rappresenta un’involuzione rispetto a quella del 1912 e i cui fini di discriminazione su base etnico-razziale sono evidenti. La pubblicazione di questo libro confuso e ripetitivo da parte di una casa editrice americana non certo minore solleva la questione del referaggio: perché non ha funzionato? E che fine ha fatto la figura del redattore editoriale?

Silvana Patriarca