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Alfio Caruso – Italiani dovete morire – 2000

Alfio Caruso
Longanesi, Milano

Anno di pubblicazione: 2000

L’affresco sul massacro della Divisione Acqui a Cefalonia da parte della Werhmacht nel settembre 1943 non presenta novità documentarie rispetto alla precedente letteratura sull’argomento, alla quale è ampiamente debitore. Si segnala, al riguardo, la riproduzione di ampi brani non virgolettati tratti da Giovanni Olinto Perosa, Divisione Acqui figlia di nessuno, Prefazione di Giorgio Rochat, Merano, 1993, scritto autobiografico di un fante. L’assenza di un benché minimo rinvio alle fonti utilizzate alleggerisce forse la mole dei dettagli, ma richiede al lettore un atto di fede nell’autorità della parola scritta di Alfio Caruso.
L’autore sottolinea come la volontà di resistere ai tedeschi fosse una posizione di minoranza fra i reparti di stanza nell’isola e come, al contrario, prevalessero tendenze ispirate a un più cauto pragmatismo. Sono riferiti diversi atti di insubordinazione compiuti da soldati e ufficiali di grado inferiore, fautori della scelta di non cedere le armi ai tedeschi, nei confronti delle alte gerarchie militari, orientate alla trattativa. Simili episodi, suggerisce l’autore, furono l’”anticipazione del virus che ammorberà il Paese nei decenni a venire: l’intolleranza” (p. 87). Una notazione curiosa per un Paese che usciva da venti anni di dittatura. Per il resto, la crisi dell’esercito italiano è personificata nel dramma interiore del generale Gandin, in un ritratto mellifluo che non scioglie il nodo dell’attitudine filotedesca del comandante della Acqui, decorato con la croce di ferro di prima classe per l’opera svolta in Russia.
Assai poco convincente il valore divulgativo dell’opera, ennesima summa dei motivi retorici di cui è zeppa la vulgata sulla memoria storica italiana. Chi fosse interessato a uno studio sull’argomento, vi troverà una rassegna degli stereotipi sul biennio di occupazione italiana trascorso “in un clima da vacanza continua, tra amorazzi, bagni di mare e di sole” (p. 17) e caricature di maniera sui “cefalleni suadenti contapalle” (p. 39). Ben vengano i contributi di quanti non sono, come l’autore dichiara di essere, “non esperti ma semplici curiosi della Storia” (p. 289), ma sulla base di quali argomentazioni si può asserire (p. 16) che fino all’8 settembre 1943 “l’esistenza dei militari italiani a Cefalonia è quella ben rappresentata dal film Mediterraneo”? Forse all’autore è sfuggito che l’occupazione italiana di Cefalonia coincise con un programma di denazionalizzazione forzata, volta a italianizzare la popolazione locale.
In un mal riuscito equilibrio fra testo e sottotesto, Caruso polemizza con la “Sinistra, per decenni distributrice di patenti su ciò che andava onorato e su ciò che andava dimenticato della seconda guerra mondiale” (p. 289). In favore di questa tesi, denuncia l’insabbiamento dell’istruttoria aperta a metà degli anni cinquanta sui fatti di Cefalonia “grazie all’intervento di due ministri italiani, Antonio Martino [sic!]e Paolo Emilio Taviani” (p. 279). L’ansia della demonizzazione gli impedisce di precisare che trattasi, rispettivamente, di un liberale e di un democristiano.

Lidia Santarelli