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Andrea Brazzoduro, Soldati senza causa. Memorie della guerra d’Algeria

Andrea Brazzoduro
Roma-Bari, Laterza, 308 pp., € 28,00

Anno di pubblicazione: 2012

La storia coloniale e postcoloniale della Francia è segnata dall’esperienza della lotta
di liberazione degli algerini, combattuta tra il 1954 e il 1962, caratterizzata da un numero elevato di morti e dall’esodo dall’Algeria verso la Francia di circa un milione di pieds
noirs, in gran parte fautori dell’Algérie française, costretti a lasciare il paese dopo le atrocità
commesse dall’Oas che avevano impedito qualsiasi successiva coabitazione tra algerini e
popolazione coloniale francese. Il dominio coloniale, durato più di 130 anni, era basato
sulla violenza, la discriminazione razzista, l’esproprio e lo sfruttamento; eppure, aveva
anche profondamente segnato le esperienze di vita intrecciate dei colonizzati e dei colonizzatori. Nella letteratura troviamo numerose tracce di un ambivalente legame di amore
e odio. Questa violenta contaminazione, probabilmente, ha contribuito a rendere così
difficile il lavoro della memoria e dell’elaborazione del lutto in entrambi i paesi – ancora
oggi, cinquant’anni dopo gli accordi di Evian.
Il testo di Andrea Brazzoduro, «storico del tempo presente», si configura come una
vera e propria ricerca sulla decolonizzazione e ci consente di entrare nel pieno del conflitto
memoriale attraverso la messa a fuoco di un particolare punto di osservazione: quello dei
racconti dei coscritti dell’esercito francese (partirono per l’Algeria un milione e 200 mila
soldati francesi di leva, ragazzi che in media avevano allora tra diciotto e vent’anni). Sono
stati «soldati senza causa in una guerra senza nome» (p. 3), organizzati dopo la guerra
in varie associazioni corporative tramite le quali si sono battuti per decenni per vedersi
riconosciuto lo statuto di combattente, titolo che è stato concesso solo dopo ventidue
anni, mentre ce ne sono voluti trentasette per veder ufficialmente riconosciuta la guerra.
Con una legge semantica l’Assemblea nazionale francese, nel 1999, decide infatti di sostituire nei documenti ufficiali gli svariati eufemismi come «avvenimenti», «operazioni di
mantenimento dell’ordine» o «pacificazione» con la parola guerra. A suo tempo il riconoscimento di uno stato di guerra avrebbe significato riconoscere la legittimità dei combattenti algerini – etichettati invece come bande criminali – e de Gaulle, a Evian, nel 1962,
«concesse» invece l’indipendenza con un atto di cessate il fuoco unilaterale. Tali questioni
semantiche rimandano al problema più di fondo, cioè quello della politica e dei politici
francesi – ma anche del senso comune diffuso nella società francese – nell’affrontare in
modo (auto) critico il proprio passato coloniale.
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Opportunamente, Brazzoduro sottolinea la complessa tri-dimensionalità di questa
guerra che non riesce a dirsi: una guerra contemporaneamente franco-algerina, francofrancese e algero-algerina. Dopo il riconoscimento ufficiale che di guerra si è trattato, tuttavia, l’aspra contesa tra chi si considera protagonista e chi invece vittima non si è risolta:
la guerra appena riconosciuta come tale non riveste un significato condiviso, e le violente
contrapposizioni circa date e luoghi della memoria lo testimoniano. Mentre per gli uni la
fine della guerra significa liberazione, per gli altri non è che tradimento e abbandono. «Il
dibattito parlamentare evita insomma la questione di fondo, di cui la guerra non è che un
epifenomeno: cosafaceva la Francia in Algeria e soprattutto come» (p. 159).
Il volume di Brazzoduro è ricco di suggestioni e consente di avvicinarsi alla questione coloniale/postcoloniale per vie diverse e intrecciate. Innanzitutto, sul piano teorico
e concettuale, l’a. fornisce un ampio panorama delle problematiche che riguardano la
memoria, le ferite memoriali così come le rivendicazioni, i rancori così come i ripensamenti, e il bisogno del riconoscimento. Tali questioni, legate all’elaborazione individuale
dei destini collettivi che hanno coinvolto questi ex ragazzi di leva che si raccontano all’a.,
chiedono chiarimenti e considerazioni storico-politiche che coinvolgono la politica francese e il ruolo fondamentale che il conflitto algerino ha giocato nei vari spostamenti e
ricompattamenti tra le forze politiche in campo. Quali le rappresentazioni della guerra
d’Algeria e quali i cambiamenti delle immagini del conflitto nel corso del tempo? Qui
l’a. offre un’ampia e argomentata panoramica della produzione cinematografica come di
quella saggistica. Sorprendentemente e nonostante il luogo comune dell’«oblio», della
«rimozione» e del «tabù», esiste una produzione editoriale enorme, sia storica che autobiografica, mentre appare più problematica la trasposizione filmica del conflitto. Brazzoduro
riconduce queste difficoltà da una parte all’eredità della Nouvelle Vague, poco incline alle
grandi narrazioni, dall’altra alla peculiare tri-dimensionalità della guerra e, infine, alla
«rimozione dell’intimo rapporto tra colonialismo e modernità» (p. 115).
Emerge da queste analisi che da un certo punto in avanti la questione algerina come
lato sporco e ombroso della propria rappresentazione repubblicana si sostituisce nella
coscienza nazionale allo smacco del periodo di Vichy. Brazzoduro osserva qui un cambiamento profondo dei quadri sociali della memoria: «La sequenza 1940-44 (inserita nella
più vasta vicenda della distruzione degli ebrei europei) si colloca sempre più nettamente in
un regime memoriale normativo operante come senso comune su scala mondiale (almeno
nella sua parte occidentalizzata). Viceversa, la questione coloniale e la “guerra d’Algeria”,
riproposte da nuovi e vecchi soggetti collettivi in una specifica costellazione di senso, assumono i tratti conflittuali di un nuovo “passato che non vuole passare”» (p. 155).
Il filtro per affrontare le diverse articolazioni e rappresentazioni della guerra coloniale e della accidentata elaborazione postcoloniale sono le testimonianze degli ex coscritti
intervistati, un coro discordante di voci che conferisce una tonalità vivace a tutte le argomentazioni. In tal senso sono particolarmente toccanti gli ultimi capitoli del libro in cui
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gli ex ragazzi, ormai veterani, raccontano la loro estraneità a questa guerra che ha scippato
loro la giovinezza. Come allora, ancora oggi, prevale una sensazione di frustrazione e di
estraneità; solo in pochi si dichiarano come oppositori del colonialismo. «Il tratto caratteristico dei militari di leva sembra essere stato piuttosto quello dell’ignavia, della sospensione del giudizio durante una prova sgradevole ma che si sa a termine, una calamità naturale
di cui aspettare pazientemente la fine come un malattia infantile» (p. 217). Prevale un
sentimento di impotenza (non è ancora la generazione del ’68 e delle lotte contro la guerra in Vietnam): la possibilità della diserzione non appariva realistica a questi giovani alle
soglie delle nuove culture giovanili, dei concerti pop (Salut les copains) e delle scorribande
in motocicletta. Il grande assente dei loro racconti sono gli altri, gli algerini: «non si pensava per niente che l’Algeria fosse un paese coloniale… era un dipartimento… c’erano dei
movimenti in un dipartimento, solo che era dall’altra parte del mare…», racconta uno di
loro (p. 240). Leitmotivdei ricordi è la propria giovane età, la sensazione di essere stati ingannati e il peso dell’incertezza sulla reale durata del servizio di leva che incombeva come
un’ombra. Così i ricordi peggiori, sostanzialmente, si configurano come evocazione della
sofferenza patita (il freddo, la disciplina ferrea, a volte sadica, la sporcizia), e mai sono
ricordi della violenza inflitta. Se c’è critica, quella è rivolta all’inadeguatezza dell’esercito,
non alle ragioni della guerra contro l’indipendenza algerina.
Gli algerini, donne, uomini, bambini, sono i vistosi assenti dai racconti dei veterani, come lo sono anche dalle foto-ricordo della guerra che gli intervistati conservano. È
merito di Brazzoduro di averli introdotti nel suo testo, proprio in virtù della loro assenza.
Le evocazioni delle testimonianze delle torture che hanno scosso l’opinione pubblica francese negli anni, la rivendicazione delle sofferenze degli harkie i problemi che riscontrano
i loro figli nella società francese odierna, la specificità della guerra coloniale che non
conosce un fronte chiaro tra eserciti nemici, ma fa diventare i ribelli e la popolazione
civile un tutt’uno da combattere – tutti questi sono temi presenti nei dibattiti degli anni
postcoloniali. Nelle interviste raccolte, tuttavia, emergono raramente. Questa generazione dei coscritti, ferita dall’esperienza della guerra d’Algeria, rimane estranea alle profonde
ferite inflitte a propria volta agli algerini. «Cosafaceva la Francia in Algeria e soprattutto
come» non è un tema assente soltanto dai dibattiti parlamentari ma riguarda innanzitutto
l’opinione pubblica in generale. E non solo in Francia rispetto all’Algeria, ma in tutte le
nazioni postcoloniali rispetto al proprio passato coloniale.

Renate Siebert