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Andrea Possieri – Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991) – 2007

Andrea Possieri
Bologna, il Mulino, 300 pp., Euro 24,00

Anno di pubblicazione: 2007

Se la storia e la sua narrazione rappresentano un terreno cruciale per la definizione di ogni identità collettiva, nel PCI – secondo Andrea Possieri – ciò si esprimeva in termini estremamente esasperati, tanto da trasformare la memoria in un «peso», in un fardello impossibile da rielaborare criticamente. Insomma, la riflessione storica dei comunisti strutturava un’identità molto forte, densa di contenuti, ma (alla resa dei conti) fin troppo pesante e ingombrante per essere superata senza rimozioni o disinvolte sofisticazioni. Il risultato era la nascita di un nuovo soggetto politico, il PDS di Occhetto, che mostrava una ancora molto forte continuità con il passato. Infatti, continua Possieri, anche nel Partito democratico della sinistra ci si trovava di fronte a «una caratteristica strutturale di tutta la costruzione identitaria del PCI, quasi come una sorta di peccato originale della sinistra italiana» (p. 15): il suo concepirsi e presentarsi come un elemento fondante e ineliminabile del progresso sociale e politico del paese, con la pretesa di far corrispondere la propria stessa esistenza alle leggi di un’ineluttabile necessità storica. Ne conseguiva una rinnovata e costante spinta alla rielaborazione della propria memoria, posta alla base di un legame comunitario e partitico che non poteva tollerare né incoerenze, né discontinuità, né deviazioni. Al contrario, farlo avrebbe comportato la messa in discussione non soltanto del passato, ma soprattutto della fede nel futuro, nella capacità del Partito di predire un approdo salvifico e liberatorio, la conquista del paradiso secolare socialista (o giustizialista, come nel caso specifico della formazione di Occhetto).Scontata, però, la presenza di questi caratteri sacerdotali, tipici della tradizione politica comunista (peraltro largamente indagati), resta l’impressione che l’a. riservi un’enfasi eccessiva al rapporto tra il PCI e la propria storia, giudicato come uno scandaloso paradigma che li trasformava (addirittura) in un agente inquinante della democrazia italiana. Resterebbe da spiegare perché il PCI è stato tra i primi ad aprire i propri archivi agli studiosi, con una liberalità e un’apertura alla critica, va ricordato, che non ha paragoni con il comportamento di altri soggetti politici italiani.Forse la questione andrebbe capovolta nel suo assunto principale: non era tanto il PCI a fare della manipolazione della memoria un tratto distintivo, quanto la storia italiana repubblicana a contaminare pesantemente i comunisti, costringendoli a intrecciare il proprio destino con quello della Costituzione antifascista, un programma fondamentale che li ancorava ai valori della democrazia e del pluralismo politico. Di modo che la costante rimodulazione identitaria che impegnava i comunisti, pur nella finzione di un’assoluta continuità, non è stata altro che la presa d’atto politica – certo imperfetta, contraddittoria, densa di incongruenze – di questi progressivi e obbligati cambiamenti, fino alla trasformazione del PCI in un partito di fatto riformista, benché incapace e di nominarsi tale e di comportarsi in maniera pienamente conseguente.

Giovanni Cerchia