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Antonio Donno – In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda – 2004

Antonio Donno
Firenze, Le Lettere, pp. 298, euro 20,00

Anno di pubblicazione: 2004

L’interesse per le origini intellettuali della guerra fredda costituisce la premessa del presente lavoro, che mette a fuoco il riemergere, nel corso degli anni della presidenza Truman, di un conservatorismo antistatalista e libertario. Il libro, in cinque capitoli, ricostruisce aspetti del pensiero conservatore, con riferimento ad alcune significative figure come Nock, esponente di una visione ?libertaria? centrata sull’assoluto valore dell’individuo, e il suo allievo Chodorov; Hayek e Mises, fautori di un liberalismo classico e critici verso qualunque forma di ?pianificazione?; tradizionalisti come Kirk o il sudista Weaver che ridanno vita a un conservatorismo centrato sui valori della comunità, della religione e della ?tradizione? americana.
Una realtà diversificata e che presenta discontinuità di non poco conto, come ben descrive l’autore. Lo stesso termine ?conservatore? va, dunque, usato con molta cautela. Nock o lo stesso Hayek, adesso considerati padri del moderno neoconservatorismo, lo respingono. Anche le posizioni sul ruolo internazionale degli Stati Uniti sono tutt’altro che univoche: alcuni sembrano rifugiarsi nella tradizione ?isolazionista?; altri, in nome dell’anticomunismo, invocano un’azione più decisa nei confronti del totalitarismo sovietico. Anticomunismo e feroce critica al liberalismo newdealista sono, tuttavia, gli elementi che accomunano gli uni e gli altri. L’autore, però, non definisce cosa si debba intendere per ?newdealismo?, anche se implicitamente sembra aderire all’immagine offerta da questi intellettuali: statalismo, accentramento burocratico, dirigismo e, per quel che riguarda la politica estera, una posizione ?morbida? nei confronti dell’Unione Sovietica. Tutti fattori che si ritiene confliggano con i valori e i principi fondanti la democrazia americana: diritti individuali, libero mercato, separazione dei poteri, ?Stato leggero?.
Il testo, per la ricchezza delle questioni che solleva, suscita tuttavia diversi interrogativi. Ad esempio, appare poco problematizzato, anche se ad esso viene accennato in qualche passaggio, il fatto che molti degli esponenti più critici del New Deal siano intellettuali europei espatriati a causa del nazifascismo. La domanda da porsi è quanto l’esperienza europea influenzi la loro capacità di comprendere la realtà della società e della politica americana. Quanto cioé le analisi sul rapporto fra Stato e masse, elaborate nel contesto europeo, siano in grado di rendere appieno le complesse dinamiche politiche e sociali statunitensi. Così come tali posizioni avrebbero dovuto, forse, essere discusse alla luce di quegli studi che mettono in evidenza le diverse e contrastanti posizioni presenti nell’amministrazione Roosevelt. Infine, l’analisi delle riflessioni di questi autori sullo Stato e sul rapporto Stato-economia avrebbe dovuto essere messa a confronto con una storiografia che molto ha detto sulla interazione fra crescita delle grandi corporations e apparato politico-istituzionale. Si scoprirebbe che la regolamentazione economica fu il risultato di una lotta politica che vede nello Stato il garante di quelle libertà individuali che le corporations mettono definitivamente in crisi.

Raffaella Baritono