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Armatori, banche e Stato. Il credito navale in Italia dall’Unità alla prima crisi petrolifera

Roberto Giulianelli
Bologna, il Mulino, 330 pp., € 25,00

Anno di pubblicazione: 2017

Il volume di Giulianelli, professore associato di Storia economica all’Università Politecnica delle Marche, indaga un aspetto piuttosto specifico dell’industria marittima nazionale, ovvero il sistema creditizio deputato prettamente a finanziare l’acquisizione di «nuovi» navigli da parte dei gruppi armatoriali.Il periodo analizzato è lungo un secolo e si estende dall’Unità agli anni ’70 del ’900. Tuttavia, il vero spartiacque temporale ha luogo nel 1928, quando il «modello Beneduce», grazie alla fondazione dell’Istituto per il Credito Navale (Icn) riesce a concretizzare i vani tentativi precedenti di dedicare istituti bancari ad hoc per favorire il potenziamento delle flotte commerciali da parte delle compagnie di navigazione.
Tale cesura periodizza la vicenda del credito navale in due grandi tronconi cronologici. La prima fase coincide con il primo cinquantennio di storia unitaria, contraddistinto da «una instabilità governativa», dalla longa manus delle banche «generaliste» (pp. 46-47) e dall’opposizione di giuristi ed economisti liberisti agli incerti progetti di avallo statale al credito navale. Essa è interrotta dalla prima guerra mondiale che invece «apre la strada a sinergie fra Stato e industria privata che [contribuiranno] a disegnare un nuovo modello di economia mista» (pp. 61-62). Tale sistema sarà implementato pienamente nella seconda fase, che dura dal fascismo maturo fino alla crisi del 1973, grazie all’azione di tecnocrati come Beneduce e Stringher, «che alle straordinarie competenze procedurali abbinano una non comune visione dell’economia e del suo funzionamento» (pp. 275-276), ma soprattutto grazie alla «solidità» e al dirigismo dello Stato fascista, che annulla la distanza tra governo e apparati amministrativi, prerogativa della precedente età liberale. Durante i trente glorieuses sono poi i fondi del piano Erp che permettono al credito navale di vivere «qualche stagione soleggiata» (p. 283). In definitiva, è proprio «lo scudo dello Stato» ad esserne il «vero garante» (p. 277), attraverso uno «schema di base secondo il quale la provvista delle risorse mutuabili [del credito stesso] deve avvenire attraverso la vendita di titoli obbligazionari» (p. 276).
Si tratta di una ricerca rigorosa, che privilegia una dimensione interna alle istituzioni bancarie e statali, entrando nello specifico dei tanti ed effimeri passaggi, rappresentati da merger, fallimenti, convergenze e contrasti tra imprese e banche: un intreccio inestricabile di interessi in conflitto che risente della «contingenza» della politica economica dell’età giolittiana. Un sovrapporsi e un riproporsi di figure che appartengono al contempo al mondo finanziario, imprenditoriale e della politica, a detrimento di una netta distinzione tra poteri pubblici e soggetti privati. A trovare provvidenzialmente il bandolo della matassa intervengono le Conclusioni, in cui si afferma che il credito navale, dapprima aspettato a lungo come Godot, allorquando è finalmente arrivato ha deluso «chi […] si era illuso delle sue qualità taumaturgiche» (p. 283).

Giovanni Cristina