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Bartolomé Clavero – Genocide or Ethnocide, 1933-2007. How to Make, Unmake and Remake Law with Words, – 2008

Bartolomé Clavero
Milano, Giuffrè, VIII-268 pp., euro 28,00

Anno di pubblicazione: 2008

Storico del diritto e membro del Forum permanente per le questioni indigene presso il Consiglio economico e sociale dell’Onu, l’a. critica la categoria giuridica di genocidio oggi vigente, priva di efficacia preventiva e incapace di proteggere i gruppi minoritari dalla distruzione delle loro culture. Muovendosi tra la storia del pensiero giuridico, la Begriffsgeschichte e la «storia del presente» in quanto «history inspired by an ethical turn, […] dealing not just with facts but also responsibilities» (p. 6), l’a. sostiene che l’etnocidio («cultural genocide»), erede delle pratiche coloniali e diffuso nel continente americano (Clavero ha lavorato in Guatemala, Messico e Cile), deve tornare ad essere un sottoinsieme del suo più fortunato gemello, l’unico ad essere stato «promosso» allo status giuridico. Lo scopo è «remake law»: «Today genocide means only full intentional mass murder because people think so. If we […] change our mind, legal instruments will have to follow us» (p. 88). L’a. parte dalla riflessione di Lemkin, «sdoppiato» tra il Rafal intenzionato a mantenere al centro anche la distruzione delle specificità culturali (come ancora nel libro del 1944, Axis Rule in Occupied euro pe) e il successivo Raphael, ormai dedito alla creazione di un concetto legale plasmato da Norimberga, strettamente connesso alla legislazione sui crimini di guerra e ritagliato sulla Shoah. Per Clavero oggi il «cultural genocide» deve essere reintrodotto nella definizione legale di genocidio anche perché storicamente è stato spesso un prodromo del «murderous genocide». Per questo l’a. critica quegli storici che preferiscono non usare la G-word e si abbandonano alla proliferazione semantica: linguicide, democide, ecocide, politicide, e così via.Sotto l’aspetto storico-analitico, però, autori come Jacques Sémelin hanno invocato la necessità di «se dégager du droit» per spiegare le caratteristiche «di processo» degli stermini, all’interno di dinamiche più vaste che li precedono, li accompagnano e ne influenzano gli esiti. Lo storico e il politologo, più del giurista, hanno bisogno di vedere discriminazioni e massacri dal punto di vista degli ideatori e degli esecutori, per comprenderne cause e motivazioni. Sotto l’aspetto giuridico la tesi centrale è convincente, ma l’a. non affronta una conseguenza rilevante dell’eventuale recupero del «cultural genocide» come concetto giuridico. Mentre nel caso del «murderous genocide» la definizione del gruppo-vittima è a priori data dagli esecutori, se l’oggetto del crimine diventa la «cultura» minacciata di un «gruppo etnico» (ad es. in conseguenza di politiche economiche), l’onere della definizione dei confini del gruppo e delle caratteristiche della cultura ricadrebbe su legislatori e giudici. Del resto l’a. critica la concezione dei diritti umani centrata sull’individuo, che trascura «communities and peoples under attack» (p. 176), e parla di «genocide as denationalizing policies» (p. 184). Queste ultime implicano dunque nations e cultures già chiaramente delimitate, quando invece rimangono categorie cangianti e aperte alla mediazione, anche e soprattutto politica.

Niccolò Pianciola