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Carlo Fracanzani. Tra società e istituzioni

Francesco Malgeri
Introduzione di Giovanni Grasso, Milano, FrancoAngeli, 221 pp., € 30,00

Anno di pubblicazione: 2016

In questo interessante e denso contributo, l’a. ripercorre con puntualità le vicende
politiche di Carlo Fracanzani, figura sconosciuta alla storiografia. Nato a Padova nel
1934, laureato in Giurisprudenza e avvocato, Fracanzani entrò nella Democrazia cristiana
nel 1952, dopo aver ascoltato un discorso di De Gasperi, punto di riferimento del
suo impegno politico. Appartenente all’ala sinistra del Partito, soprannominato il «Conte
Rosso», si riconobbe nella corrente di «Forze nuove» guidata da Donat-Cattin, portando
avanti un progetto dinamico di cattolicesimo sociale. Coniugò una forte attenzione per le
dinamiche territoriali e locali del Veneto, dai problemi economici a quelli ecologici, con
una costante apertura verso i temi dell’europeismo. Fu eletto a Montecitorio per la prima
volta nel 1968, per rimanervi fino alla XI legislatura. Attraversò dunque la difficile stagione
degli anni ’70, dal referendum sul divorzio all’esplosione del terrorismo, al rapimento
e uccisione di Aldo Moro, sviluppando una costante presenza critica all’interno della Dc.
Circa il referendum, affermò ad esempio nel 1974 che «non è con la radicalizzazione,
con l’integralismo, con l’isolamento che la Dc può conservare il suo ruolo al servizio del
paese» (p. 32).
Attento osservatore della società italiana in trasformazione, invocò tanto sul piano
dell’organizzazione del Partito, quanto delle azioni governative nazionali, politiche «orizzontali
» di inclusione, piuttosto che verticistiche (o monopolistiche), con un occhio fisso
sui problemi della disoccupazione giovanile. Ricevette il suo primo incarico governativo
nel 1987, come sottosegretario al Ministero del Tesoro, per essere nominato, l’anno successivo,
ministro delle Partecipazioni statali nei governi De Mita e Andreotti. Durante
quest’ultimo, si dimise però insieme a tutti gli altri ministri appartenenti alla sinistra Dc
(tra questi c’era anche Sergio Mattarella) per viva protesta contro l’approvazione della
legge Mammì.
Visse la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la fine del comunismo come un’affermazione
condivisa dei valori dei cattolici democratici, ma invitò pure a lavorare attorno
«ad un progetto adeguato» per coniugare «i valori permanenti» con «le esigenze moderne
della società» e tale da rendere la Dc sempre più «un grande partito popolare» (p. 133).
Monitorò con preoccupazione l’affermazione elettorale delle Leghe, considerate espressione
di un «vento di destra» che aveva spirato dalle regioni del Nord Europa con venature
«antisolidaristiche e localistiche»; e s’impegnò, insieme a figure come Rosy Bindi, a
difendere l’anima del cattolicesimo democratico, anche dopo lo scioglimento della Dc.
Nel 1994 si iscrisse nel Ppi, senza riuscire a essere eletto alle europee. Tornò quindi alla
sua attività di avvocato, mantenendo vivo, su giornali e quotidiani, «il suo interesse per
le vicende politiche italiane e internazionali e la sua attenzione ai tumultuosi eventi che
hanno attraversato l’ultimo ventennio» (p. 163).

Emanuele Bernardi