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Città e democrazia. Per una critica delle parole e delle cose

Carlo Olmo
Roma, Donzelli, 176 pp., € 27,00

Anno di pubblicazione: 2018

Nel saggio introduttivo de La città e le sue storie, volume pubblicato da Einaudi
nel 1995, l’a. e Bernard Lepetit scrivevano pagine memorabili sullo sfalsamento di piani
concettuali e discorsivi mediante i quali gli spazi urbani sono stati prodotti nel corso del
tempo e sulle implicazioni metodologiche per lo storico che li studia. Durante questo
ventennio abbondante, Olmo è poi tornato sulle sue riflessioni in diversi volumi (si veda
la recensione di Paolo Capuzzo ne «Il mestiere di storico», 1/2011, pp. 54-56), confermando
sia la sua vasta genealogia teorica – che si potrebbe definire in sintesi come una
«filosofia dello spazio» (soprattutto urbano, e dunque anche sociale, culturale, economico,
giuridico, ecc.) – che la sua forma narrativa, descritta dallo stesso a. come «meditativa,
aspra, quasi monastica» (Architettura e storia, Donzelli, 2013, p. VII).
Questo è forse il volume meno «storico» tra i precedenti: esso nasce come «revisione
quasi integrale di lectio magistralis» (p. VIII) tenutesi tra il 2009 e il 2017, e dalla quasi
coeva esperienza dell’Urban center metropolitano (Ucm) di Torino, entità terza rispetto
all’amministrazione burocratica (le «competenze») e agli organi politico-istituzionali (la
«rappresentanza») nel processo di genesi degli spazi urbani rigenerati del capoluogo piemontese
negli anni 2000.
Le «tracce di ragionamento» (p. VIII) che compongono il volume partono dai due
termini presenti nel titolo, integrati con altre parole/concetti definiti «senza padrone» (pp.
3 e ss.) – limite, complessità, morfologia, immaginari, patrimonializzazione, autorità,
terzietà, testimonianza – che progressivamente edificano, a mo’ di opus incertum, il muro
argomentativo dei sette capitoli, arricchiti da un’Introduzione e una Postfazione. Si tratta
di ragionamenti carichi di citazioni e allusioni filosofiche, che rendono il volume leggibile
più per frammenti, quasi fosse un collage di aforismi non immediatamente intelligibili,
almeno per chi scrive, ma da far decantare nella mente in attesa di un’illuminazione euristica
da applicare a un caso di studio.
La crisi semantica di città e democrazia – e del loro rapporto – nasce principalmente,
secondo Olmo, dalla rarefazione dell’agorà, cioè dello spazio pubblico come luogo di
conflitto pur disciplinato da norme, e dalla riduzione della complessità a problema da risolvere
da parte di una tecnocrazia sempre più oligarchica. Si avverte una critica verso alcune
tendenze della città e della società del presente, come la democrazia diretta virtuale,
il ripiegamento verso una memoria e una patrimonializzazione identitarie e banalizzanti,
l’abuso di termini come «smart, sostenibilità, green» (p. 162), la crescita delle diseguaglianze
spaziali e sociali. Di contro, emerge tra le righe una conferma della difficoltà di adattamento
dell’urbanistica alla fine dei paradigmi novecenteschi. Tale smarrimento di valori ha alla
lunga influito anche sull’attività dell’Ucm, cessata nel 2014. Quali le cause? Il diradamento
della «cultura “azionista” che aveva animato un quindicennio (1992-2007) della vita della
città» e «una progettualità ridotta a problem solving» (p. 162).

Giovanni Cristina