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Comunisti per caso. Regime e consenso in Romania durante e dopo la guerra fredda

Francesco Zavatti
Milano-Udine, Mimesis, 300 pp., € 22,00

Anno di pubblicazione: 2014

Il Partito comunista romeno (Pcr) fondato nel 1921, fu ben presto messo al bando dalle autorità e per gran parte del periodo interbellico la dirigenza del Pcr fu dominata da elementi stranieri; la sua linea politica si limitò a riflettere le indicazioni che provenivano da Mosca compresa la necessità di distruggere lo Stato nazionale romeno così come questo si era formato dopo la Grande Guerra. Tali elementi contribuiscono a spiegare la scarsa presa dei comunisti sull’opinione pubblica romena e l’incapacità di diventare un partito di massa anche nelle città e nei pochi centri industriali.
La conquista del potere da parte dei comunisti tra il 1947 e il 1948 fu dovuta essenzialmente all’occupazione del paese da parte dell’Armata Rossa. Soprattutto in seguito agli avvenimenti ungheresi del 1956 il regime comprese che non poteva basare la sua permanenza al potere ricorrendo al solo apparato repressivo e alla protezione (soffocante) della potenza dominante sovietica. Fu l’inizio di una complessa ricerca di legittimità che ebbe tra i suoi punti salienti la cosiddetta «dichiarazione d’indipendenza» del 1964. Le linee politiche lanciate da Gheorghe Gheorghiu-Dej furono ulteriormente sviluppate dal suo successore, Nicolae Ceauşescu, e culminarono nella condanna dell’invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia. Questo atto fu anche l’inizio di un breve idillio tra il regime e gli intellettuali.
L’ottenimento del consenso e l’uso della storia quale mezzo di legittimazione politica sono il centro dell’interessante volume di un giovane studioso, Francesco Zavatti, che ha voluto cimentarsi con uno degli aspetti più interessanti e controversi della storia del regime comunista romeno. Lo studio è diviso in tre capitoli, nel primo l’a. analizza la questione dell’idea nazionale in Romania, nel secondo affronta il nazional-comunismo di Ceauşescu, nel terzo, infine, viene trattato l’intreccio tra politica, storiografia e cultura nella Romania postcomunista. L’obiettivo più importante perseguito dall’a. è riuscito e nonostante una sintassi a volte malferma il volume, dotato di un apprezzabile apparato bibliografico, riesce a far emergere la spregiudicata operazione che fece della Storia e, più in generale della cultura – ancorché banalizzate e falsificate – dei bastioni del consenso del regime. Con la vulgata imposta da Ceauşescu il Pcr assurse a erede dei grandi protagonisti della vicenda storica romena (compresi i re daci), ideale continuatore dell’ideale nazionale e della difesa degli interessi e delle specificità del popolo romeno. Se questo è il merito del volume allo stesso tempo l’a. ha peccato, forse, di eccessiva ambizione dilatando troppo l’ambito temporale affrontato. Il 1989 nella cultura romena, al contrario di altri paesi comunisti, ha rappresentato una cesura netta, e dunque la storiografia e con essa i problemi politici e nazionali rappresentano un argomento ampio e complesso, mentre nel terzo capitolo del volume di Zavatti appaiono quasi solo abbozzati.

Alberto Basciani