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Con ventiquattromila baci. L’influenza della cultura di massa italiana in Jugoslavia

Francesca Rolandi
Bologna, Bononia University Press, 195 pp., € 25,00

Anno di pubblicazione: 2015

Una quindicina d’anni fa un eminente storico belgradese, in visita di lavoro a Trieste,
auspicava che un giorno qualcuno si decidesse a studiare e scrivere sul «fare la spesa a Ponterosso
» (area del quartiere teresiano in centro città), esperienza che milioni di cittadini
jugoslavi avevano condiviso dalla metà degli anni ’50 fino alla dissoluzione del loro Stato
negli anni ’90. Eccolo accontentato. In questo libro lo shopping a Ponterosso si iscrive
nel quadro della più generale influenza italiana (non appena provvisoriamente sistemata
la vertenza territoriale fra i due Stati) sulla nascente cultura di massa jugoslava. Un’influenza,
questa, esercitata da parte italiana senza visione o strategia (tranne forse per l’accordo
generoso stipulato dalla Rai con la Tv jugoslava) e lasciata piuttosto a meccanismi
imitativi spontanei su base commerciale. Tali sviluppi erano seguiti dai dirigenti jugoslavi
con qualche preoccupazione ideologica; da buoni rivoluzionari, tuttavia, li sosteneva la
sconfinata presunzione di poter attingere il meglio dai due mondi fra i quali la Jugoslavia
ambiva a collocarsi autonomamente.
Era ancora in corso, la ricostruzione del paese devastato dalla guerra, che già i suoi
dirigenti si curavano di importare centinaia di film occidentali e di impiantare una industria
cinematografica nazionale, con la quale avrebbero assecondato il drive modernizzante,
da un lato, e celebrato l’epopea della guerra di liberazione, dall’altro. Il prestigio del
neorealismo conferiva al cinema italiano una speciale posizione di vantaggio che avrebbe
poi aperto le porte alle coproduzioni dei kolossal e spaghetti western; la conformazione
del territorio jugoslavo consegnava tutta la sua costa adriatica al segnale televisivo italiano;
prima ancora dell’era televisiva i successi del festival di Sanremo venivano ri-arrangiati
e ritrasmessi quasi in tempo reale da Fiume/Rijeka verso l’interno jugoslavo; la moda
italiana aveva un’aura di maggiore «democraticità» rispetto a quella francese; e poi, naturalmente,
l’esperienza della Fiat nella motorizzazione degli italiani rappresentava un
modello di successo (e accessibile) per un paese nel quale nel 1956 non esisteva una sola
auto privata.
La tesi dell’a., convincente, è che i prodotti della cultura di massa occidentale subissero
in Italia un filtro e un adattamento che li avrebbe resi accettabili al sistema valoriale
jugoslavo, oltre che compatibili con condizioni socio-economiche che presentavano
aspetti di qualche affinità (la rapida crescita, gli squilibri città-campagna e nord-sud). L’a.
non manca di ragionare sulla bassa qualità dei beni e servizi scambiati all’interno dello
sbilanciato rapporto italo-jugoslavo, che non avrebbe mai raggiunto un assetto paritario a
dispetto delle rivisitazioni postume in chiave jugo-nostalgica. Nel complesso, questo libro
segna l’ingresso brillante di una giovane ricercatrice nella saggistica.
Il titolo, come ai meno giovani è ovvio, richiama la colonna sonora di Ti ricordi di
Dolly Bell? di Emir Kusturica, ambientato nella Sarajevo degli anni ’50.

 Marco Dogo