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Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure nell’Italia tra il 1914 e il 1918

Mario Isnenghi
Roma, Donzelli, 281 pp., € 20,00

Anno di pubblicazione: 2015

Nella noia di tante delle iniziative e pubblicazioni del centenario della Grande guerra,
molte delle quali prevedibili, non poche preoccupanti per il ritorno all’indietro delle
lancette dell’orologio della storiografia, il volume di Isnenghi si staglia nettamente.
Chi cambiò idea nei mesi fra il luglio 1914 e il maggio 1915 in Italia? E quali idee
(quali «risorse») furono necessarie all’Italia liberale per tenere il paese in guerra fra il 1915
e Caporetto, e poi fra questo e Vittorio Veneto? L’a. genialmente affronta temi così complessi,
e su cui esistono scaffali di storiografia, isola più di una ventina di grandi (e, pochi,
piccoli) protagonisti e ne rilegge i documenti editi di quei mesi e anni. Scorrono così,
esaminati o liquidati in poche pagine, Cadorna, Battisti, Mussolini, Semeria, Croce, Treves,
Giolitti, Sonnino, Martini, Gatti, Ojetti, Bissolati, Russo e due donne, Maria Rygier
e Antonietta Giacomelli, le cui memorie o i cui diari sono riletti, chiosati, confrontati,
seguendo le varie posizioni individuali, perché nella guerra «dall’alto e dal basso l’universo
[…] si scompone e si sfrangia con una molteplicità di versioni e inveramenti» (p. 207).
Ci vuole un autore con convinzione, coraggio e spigolosità, come si addice a chi per
tanti anni è stato animatore di «Belfagor», per provare a spiegare in così poche pagine
come quei protagonisti (come gli italiani?) si «convertirono» alla guerra, a quella guerra.
Osservare che nel 2015 lo faccia chi nel 1967 aveva scritto I vinti di Caporetto e negli
anni ’70 fu uno dei protagonisti della «storiografia del dissenso» aggiunge interesse alla
lettura.
Una volta spostato l’asse del paese dal giolittismo all’interventismo, e cacciatolo nella
guerra, furono necessari i «codici dell’ubbidienza sociale» (p. 51). Ma, per l’a., non fu
dittatura: «Per quanto imposta dai meno ai più, la guerra è stata pur voluta e legittimata
da strati non piccoli di società politica e civile, forti di matrici e motivazioni diversificate,
che al di là dei numeri hanno espresso un’egemonia e dato spessore alla scelta impositiva»
(p. 106).
I due capitoli più lunghi sono su Ojetti e su Martini, due intellettuali, che – come gli
altri – diventarono «risorse “egemoniche”» per tenere il paese in guerra.
La scrittura è quella cui Isnenghi ci ha abituato: densissima di riferimenti, innervata
di aggettivi, letteraria. Il volume è una Saggina, e quindi le note sono quelle essenziali, il
confronto con la storiografia è solo implicito. La sua novità sta nell’idea di base del volume,
nella pluralizzazione delle posizioni, nel suo interessarsi non solo alle «fedi» ma alle
«apostasie e conversioni» (p. 272) e al loro ruolo in guerra.
Chi oggi si interroga ancora se fu dissenso o consenso, se Caporetto o Vittorio Veneto,
se Cadorna o Diaz è per Isnenghi rimasto al cinquantenario, e non vive nel centenario.
Se quest’ultimo possa piacere o meno è altra cosa – si pensi che c’è chi rivendica la «guerra
di Cadorna»… – ma meno male che ci sono letture rinfrescanti come queste: su ciò dovrebbero
convenire tutti, anche coloro che non saranno del tutto convinti.

 Nicola Labanca