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Criminal Law in Liberal and Fascist Italy

Paul Garfinkel
Cambridge, Cambridge University Press, 2016, 536 pp., £ 75,00

Anno di pubblicazione: 2017

Garfinkel ha dato alle stampe una delle più curate e ricche monografie dedicate
alla storia del diritto penale, in Italia, in epoca liberale e fascista. Lo studio di una mole
considerevole di fonti d’archivio e di una altrettanto vasta letteratura giuridica ha consentito
all’a. di tracciare un quadro esauriente delle principali questioni che interessarono la
pratica e la cultura giuridica penale della penisola nei decenni a cavallo tra ’800 e ’900. Il
libro è diviso in due parti: la prima dedicata all’epoca liberale, la seconda (che occupa gli
ultimi due capitoli) concentrata sul periodo che, dalla fine del primo conflitto mondiale,
si inoltra sino all’affermazione e al consolidamento del regime fascista.
Per l’a., ed è questa l’idea centrale che sorregge la sua ricerca, la storiografia (non
solo italiana) avrebbe commesso un errore facendo affidamento, nel ricostruire le vicende
indagate, esclusivamente sul paradigma del conflitto tra scuole (Scuola classica vs Scuola
positiva); sopravvalutando così l’influenza del positivismo penale nella cultura giuridica
dell’epoca. Al contrario, per lo storico americano esisterebbe una linea di continuità che
unisce la penalistica di inizio ’800 a quella dei primi decenni del secolo successivo. Tale
tratto comune sarebbe rappresentato da quella che l’a. chiama «moderate social defense».
In altre parole, già nei primi decenni del XIX secolo si sarebbe manifestata, nelle società
occidentali, la necessità di fare fronte ad alcuni fenomeni ritenuti estremamente allarmanti
(in primo luogo quello della criminalità recidiva). Sulla spinta di tali urgenze, la pratica
giudiziaria e la cultura penalistica avrebbero iniziato a elaborare una serie di risposte che
sarebbero poi approdate, in forma naturale, in un sistema in cui l’istanza repressiva dei
poteri pubblici si sarebbe fatta carico non solo di sanzionare le azioni criminali, ma anche
di depotenziare la carica di pericolosità manifestata da ogni singolo delinquente. In
questo contesto, il positivismo penale non avrebbe rappresentato altro che una versione
estrema del principio della difesa sociale, che gli preesisteva da diversi decenni e che avrebbe
condotto, nella sua versione moderate, agli stessi risultati pratici anche in assenza di tali
nuove correnti di pensiero.
Questo assunto dell’a., per quanto interessante, non si mostra però del tutto concludente.
In primo luogo, la storiografia giuridica (se non altro quella italiana, che l’a. mostra
di conoscere), ha da tempo abbandonato come chiave di ricostruzione il paradigma
delle scuole, senza peraltro mai sostenere l’esistenza di una sorta di egemonia culturale
positivista a cavallo dei due secoli. In secondo luogo, la complessità dei concetti giuridici,
alle volte, non permette semplificazioni. E anche se è vero, come sostiene Garfinkel, che
alcuni problemi legati al fenomeno criminale vennero avvertiti con estrema urgenza già
a partire dall’inizio dell’800, è altrettanto vero che la scienza penale faticò enormemente
ad accettare il fatto che la nozione di pericolosità sociale potesse far parte, a pieno titolo,
delle proprie categorie giuridiche

Paolo Marchetti