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Des empires en carton. Les expositions coloniales au Portugal et en Italie (1918-1940)

Nadia Vargaftig
Madrid, Bibliothèque de la Casa de Velázquez, 344 pp., € 29,00

Anno di pubblicazione: 2016

L’a. pare esprimere già nel titolo un primo giudizio, severo e riduttivo, sulla effettiva consistenza del fenomeno analizzato, ovvero le velleità da parte di Portogallo e Italia di autorappresentarsi come potenze imperiali. La natura effimera e illusoria degli «imperi di cartapesta», allestiti, a scopi di propaganda e di autoesaltazione, per il breve periodo delle esposizioni, stabilisce un facile parallelo con la fragilità intrinseca di queste costruzioni imperiali.
Il volume va però oltre l’immagine suggerita dal titolo. Si tratta di un tentativo ampio, ambizioso, approfondito, e sostanzialmente riuscito, di disegnare una storia culturale dell’imperialismo di due nazioni che a livello storiografico condividono aspetti tali da permettere un’euristicamente utile analisi comparativa. I rispettivi imperi coloniali sono molto diversi, se non altro perché l’uno rivendica di essere il più antico in Europa, l’altro, a parte il richiamo alla romanità, è il più recente e ancora in formazione, tanto da completarsi solo negli ultimi anni del ventennio. Le diversità si estendono a molti altri caratteri, geografici, economici, sociali, ma vi è un tratto di analogia sostanziale sul piano politico: si tratta di due imperi caratterizzati da un assetto autoritario, di tipo fascista o ispirato al fascismo.
L’interrogativo principale che percorre il volume è dunque relativo al ruolo del mito coloniale nei due paesi anche sul piano della politica interna: l’analisi è ampia, fine e precisa, ripercorrendo luoghi, figure, protagonisti, connessioni dei grandi disegni imperiali con istanze anche locali e contingenti. La chiave di lettura fornita dalla storia politica è senza dubbio quella prevalente; ma non la sola.
Si indagano ad esempio le implicazioni sul terreno dell’espressione artistica, specie nelle esposizioni di Roma 1931 e Napoli 1934 (arte coloniale come arte dei colonizzatori, che rappresentano la colonia; ma con la presenza un po’ imbarazzante di una autonoma creatività dei colonizzati che si cerca di ricondurre nell’alveo di pratiche artigiane o di arti comunque «minori»). Si esaminano gli aspetti architettonici, urbanistici, che in molti casi disegnano diversamente la fisionomia delle metropoli sede delle esposizioni (interessante l’analisi del tentativo di configurare Napoli come la regina del Mediterraneo, capitale coloniale d’Italia), o il confronto fra allestimenti italiani e portoghesi alla grande mostra coloniale di Parigi del 1931 (con l’ardito ma ricorrente sincretismo che tenta di ricondurre ad unità le testimonianze classiche della romanità, la tradizione medievale della cristianità e delle crociate, e il futurismo). Si analizzano implicazioni culturali più ampie, anche sul piano antropologico: da rimarcare il fatto che l’a. non applichiil paradigma degli «zoo umani», molto valorizzato di recente dalla letteratura sulle esposizioni del periodo precedente.
Una ricerca quindi di riferimento per il tema che analizza, ma anche ricca di apporti per la storia culturale più complessiva del periodo fra le due guerre.

Anna Pellegrino