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Diplomazia di celluloide? Hollywood dalla Seconda guerra mondiale alla Guerra fredda

Stefano Cambi
Milano, FrancoAngeli, 192 pp., € 24,00

Anno di pubblicazione: 2014

Il volume di Cambi mette in discussione il ruolo di Hollywood quale attore diplomatico subordinato alle politiche di Washington nel periodo compreso fra la seconda guerra mondiale e la fase «calda» della guerra fredda. Il lavoro s’inserisce in un originale filone della storia delle relazioni internazionali al cui centro si trovano le negoziazioni fra attori diplomatici – ufficiali e non – circa la circolazione di prodotti, commerciali e culturali, come quelli cinematografici, di cui si riconosceva una notevole capacità d’influenza sulla società. L’a. si prefigge di verificare se e in che misura il sostegno del governo nell’agevolare la circolazione dei film d’evasione degli studios nei mercati internazionali presupponesse l’auspicio di un’esplicita influenza politica.
L’interpretazione dell’inedita documentazione americana d’archivio esaminata offre un quadro molto complesso delle reali relazioni fra le parti in gioco. Sia durante la seconda guerra mondiale che durante la presidenza Truman, a emergere è la posizione di superiorità dell’industria hollywoodiana – riunita in una potente associazione di categoria – nei confronti degli interlocutori governativi. Questi ultimi dovettero accontentarsi di una funzione consultiva di cui gli studios potevano o no avvalersi, in ossequio ai principi della democrazia americana della libertà d’impresa e d’espressione, quest’ultima vincolata soltanto da codici interni al settore.
Conscio degli interessi primariamente economici delle majors, il Dipartimento di Stato cercò di controllare l’esportazione di film attraverso un fondo per la copertura finanziaria degli investimenti delle imprese dei media all’estero, gestito dall’Economic Cooperation Administration: si cercava così almeno di respingere quella produzione filmica che più danneggiava, dal punto di vista governativo, l’immagine degli Stati Uniti all’estero, offrendo le garanzie alle pellicole più gradite. Questa strategia di «promuovere per escludere» (p. 87), che l’a. studia soprattutto attraverso il caso della Germania, epicentro della guerra fredda, portò nel 1949 alla formazione di una commissione, la cui attività era tuttavia inficiata dall’assenza di un reale potere coercitivo, il cui uso peraltro non era auspicato nemmeno dai suoi membri.
Due sono i principali meriti del volume. Il primo è di rivelare come fosse Hollywood ad agire da una posizione di forza, mentre Washington non potette che tentare di mitigare indirettamente la diffusione di narrazioni audiovisive della nazione ritenute inopportune, senza spingersi mai verso un’autentica censura di Stato, nemmeno durante la guerra mondiale. Se poi si deve parlare di egemonia americana nella propria sfera d’influenza durante la guerra fredda attraverso il cinema, allora occorre precisare come fu Hollywood a «concepire una politica economica fondamentalmente “egemonica”» (p. 155). L’altro merito è di mostrare come il cinema sia stato nel XX secolo non solo una potenziale risorsa di soft power al servizio delle istituzioni nella produzione d’immagini e immaginari, ma anche, e talvolta soprattutto, un’autentica «arma a doppio taglio» (p. 19), capace di creare più problemi che vantaggi.

Stefano Pisu