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Donatella Chiapponi – La lingua nei lager nazisti, prefazione di Brunello Mantelli – 2004

Donatella Chiapponi
Roma, Carocci, pp. 140, euro 14,30

Anno di pubblicazione: 2004

Nel suo fondamentale LTI – La lingua del Terzo Reich, il filologo Victor Klemperer definiva come primo carattere del linguaggio totalitario quello di essere ?miserabile. La sua povertà è una povertà di principio?. Questo carattere diventa, come ogni altra cosa, estremo nei lager, dove si parla una lingua chiusa, rozza, formata da pochi termini tratti da varie lingue e da loro deformazioni. Questo libro, rielaborazione di una tesi di laurea in Germanistica, è una sorta di catalogo di tali termini, soprattutto delle due lingue prevalenti nei lager, il tedesco (capirlo o no era spesso una questione di vita o di morte) e il polacco. L’autrice si basa, oltre che su tre interviste da lei condotte, su citazioni di memorie e testimonianze di deportati sia ebrei che politici, a partire da Primo Levi, senza peraltro distinguere ? ed è un difetto grave ? tra campi di concentramento e di sterminio. Le categorie da lei usate per l’analisi della Lagersprache sono quelle elaborate in alcuni saggi polacchi e tedeschi degli anni Ottanta e in un prezioso articolo dello psicologo ed ex deportato Andrea Devoto, apparso nel 1961 in «Il movimento di Liberazione in Italia».
Dopo una breve descrizione della quotidianità e della gerarchia sociale nei lager (capitoli 1 e 2) e dei caratteri generali della lingua che in essi si parlava (capitolo 3), gli ultimi due capitoli esaminano rispettivamente La lingua dei dominatori e la La lingua dei detenuti. La prima è connotata dalla violenza, dal disprezzo, dalla disumanizzazione dei prigionieri (per i quali, ad esempio, si usano verbi come fressen, adoperato per le bestie, invece di essen, o ?verbi adoperati abitualmente per designare cose?, p. 63), oltre che da eufemismi, parole neutre, abbreviazioni in sigla, che servono a celare il segreto della realtà. I deportati, dopo il trauma della babele delle lingue all’arrivo, creano una povera lingua franca, un Lageresperanto, fatta di parole tedesche, polacche, tedesche con desinenza polacca, qualcuna ceca, greca, russa, e impoveriscono in modo estremo anche la propria lingua: ?la lingua non era il tedesco della vita quotidiana di oggi. Erano sempre frasi brevi?, dichiara Anja Lundholm (p. 126); ?l’unica italiana che è venuta a vederci [?] ha tentato di dirci qualcosa, ma parlava già un linguaggio concentrazionario, e noi non potevamo capirlo?, scrive Lidia Beccaria Rolfi (p. 93). Anche la lingua delle vittime ha i suoi eufemismi e segreti, volti anch’essi a non far capire, ma in questo caso per trasmettersi informazioni o allarmi, per sopravvivere e per resistere, persino con l’ironia. Di quest’ultima Mantelli nella prefazione ricorda gli esempi dello «Stubendiest (Kapo responsabile di camerata) che si trasforma nel lessico degli italiani nell’incredibile ed ineffabile ?stupendista?» e dell’?appellativo di aspirines dato dalle deportate francesi alle Aufseherinnen (le ausiliarie SS adibite alla sorveglianza dei lager o sezioni di lager femminili)? come segno della ?volontà di opporsi alla totale spersonalizzazione che passava anche attraverso la castrazione del linguaggio, recuperando invece della propria lingua madre sia il suono, sia il significato in questo caso, come in molti altri analoghi, parodistico? (p. 12).

Anna Rossi-Doria