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Ermanno Carini, Paola Magnarelli e Sergio Sconocchia (a cura di) – Quei monti azzurri. Le Marche di Leopardi – 2002

Ermanno Carini, Paola Magnarelli e Sergio Sconocchia (a cura di)
Venezia, Marsilio, pp. 870, euro 46,50

Anno di pubblicazione: 2002

In uno dei quarantatre saggi raccolti nel volume, Renzo Paci ricorda come nella prima metà dell’800 il fiume Tronto assolva ancora un ruolo che da secoli gli è usuale: quello di confine tra l’Italia della civiltà comunale e l’Italia del feudo.
Gli ?azzurri monti? marchigiani sono, dunque, un’area per eccellenza ancipite, il limes tra due modalità di costruzione dello spazio e delle relazioni sociali al tempo stesso opposte e complementari; e la loro storia ha un valore, in realtà, paradigmatico, perché, nella sua pur evidente regionalità, è metonimia della storia d’Italia tutta intera.
La chiave più idonea per comprendere la struttura di questa regione anfibia è quella della piccola città, fortemente legata al suo contado. Piccola città è, naturalmente, la Recanati dei Leopardi; ma di centri a questa paragonabili la regione brulica, da un capo all’altro.
In quei borghi, ormai orfani degli antichi statuti che ne preservavano in precedenza l’autoreferenzialità, i governi civici ora contano, certo, meno di un tempo; e tuttavia restano il luogo istituzionale di più salda identificazione sia per l’aristocrazia sia per quei minuti frammenti di borghesia che con essa comincia a condividere la responsabilità del governo locale, in ragione delle caute, ma pur sempre percepibili, alchimie sociali favorite dal tramonto dell’antico regime.
Da un lato mantiene l’egemonia non solo economica, ma anche culturale, una nobiltà che, tuttavia, come nota Donatella Fioretti, si fa ora rispettare più in ragione dell’attivismo individuale dei suoi singoli membri che in virtù dei propri privilegi tradizionali.
Dall’altro, esce allo scoperto una borghesia professionale, orgogliosa di una formazione universitaria da cui ricava legittimazione civile e culturale.
C’è un simbolo , a questo proposito, che visualizza la buona riuscita del parziale rinnovamento dei ceti dirigenti nello spazio civico: i teatri, la cui eccezionale stagione di fondazioni nelle Marche preunitarie è simbolo di una fierezza neomunicipalistica le cui ricadute architettoniche si propongono come il terreno di investimento favorito per una finanza privata poco attratta da prospettive industrialiste e tuttavia neppure del tutto appiattita sul tradizionale versante agrario.
Ecco così prendere forma un attivismo monumentale, che alla tradizionale architettura a finalità religiosa affianca un’edilizia funzionale e laica di spiccato interesse collettivo e al tempo stesso di ben selezionato, se non proprio esclusivo, accesso.
Ci parlano, dunque, i saggi di Quei monti azzurri, di borghesie ottocentesche e di piccole “patrie” (così la curatrice e i due curatori del volume, nella nota che hanno anteposto alla silloge); non per questo di piccole borghesie, ma, piuttosto, tornando all’osservazione dalla quale abbiamo preso le mosse, del modo d’essere della borghesia italiana intera nei decenni a cavaliere dell’unificazione nazionale, arroccata all’interno di mura da presidiare rispetto all’invadenza delle amministrazioni statali, e intenta a elaborare un culto municipale alimentato tanto da imprestiti reazionari (Monaldo Leopardi) quanto da innesti liberal-moderati (Simonde de Sismondi).

Marco Meriggi