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Felicità d’Italia. Paesaggio, arte, musica, cibo

Piero Bevilacqua
Bari-Roma, Laterza, 205 pp., € 20,00

Anno di pubblicazione: 2017

È questo un volume di agile lettura; ponendosi a metà strada tra il saggio storico e il pamphlet polemico, l’a. vi ha assunto il punto di vista di molti osservatori stranieri che mai hanno preso seriamente il profilo di un’Italia industriale, al contrario delle politiche pubbliche che su questo tasto hanno sempre insistito. L’incipit del libro è ottimista, a partire dal curioso e stimolante concetto di «pubblica felicità» proveniente da Carlo Cattaneo.
Attraverso il pensiero dell’intellettuale lombardo, l’a. sostiene che la felicità non discenderebbe tanto dall’azione di governo quanto da una serie di regole non scritte e di consuetudini generate dal basso; queste, a loro volta, hanno potuto attingere a quella provvidenziale frammentazione di identità e di tradizioni che caratterizza il paese delle cento città e delle mille ricette. Tra le fonti di felicità descritte nel libro, primeggia il cibo nel suo indissolubile legame con il paesaggio e l’agricoltura: superata un’iniziale diffidenza per un tema oggi inflazionato (tra slow food e performance tele-gastronomiche), questa è forse la parte più godibile del libro anche per l’agilità tipica di chi, come l’a., padroneggia da tempo la materia. In poche pagine abbiamo un quadro di grande respiro storico-geografico che ci appassiona a ogni passaggio. Dopo le delizie del cibo, viene poi illustrato il caso di Napoli – «la città che si canta» (p. 121) – la quale, con la sua straordinaria tradizione musicale, fornisce un’ulteriore fonte di civiltà; l’a. qui riesce a raccordare gli «esiti alti» con la tradizione popolare.
Il tono del libro cambia quando si passa agli altri due motori di happiness: l’associazionismo – di marca soprattutto emiliana – e la città, letta come «bene pubblico e comune» (p. 68); per quanto non comparabili, questi due sistemi hanno vissuto in passato una stagione aurea, oggi voltata verso un ben diverso destino. Se il modello cooperativo sta lentamente sfilacciandosi, sotto l’influsso della crisi del solidarismo e della partecipazione politica, è soprattutto sul fronte della città che si registrano le note più dolenti. Un tempo scrigno di bellezza e di equilibrio, la città italiana mostra i segni di recenti e «impressionanti devastazioni» che ne hanno intaccato sia la facies (specie nelle parti periferiche e suburbane), sia il connettivo sociale.
Con l’ausilio di una letteratura di denuncia e un po’ nello spirito di Italia Nostra anni ’60-’70, Piero Bevilacqua stigmatizza giustamente quanto avvenuto nella seconda metà del ’900, sotto il segno del mero profitto individuale e non dell’interesse collettivo: sempre meno ascrivibile alla dimensione del «bene pubblico e comune», la città e il territorio offrono lo spunto per delle «conclusioni programmatiche» (p. 184) dal sapore amaro. Ponendo l’accento sia sulle occasioni mancate sia sui misfatti perpetrati, l’a. ci fornisce un quadro futuro poco confortante. Il sorriso ottimista nato con le prime pagine del libro lascia il posto a una smorfia di sconforto: non ci resta che il cibo (e qualche canzone) a controbilanciare la sensazione che alla fine, nella nostra (ex) bella Italia prevalgano le ragioni di infelicità.

Guido Zucconi