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Filippo Colombara – Vesti la giubba di battaglia. Miti, riti e simboli della guerra partigiana – 2009

Filippo Colombara
Roma, DeriveApprodi, 251 pp., euro 17,00

Anno di pubblicazione: 2009

Questo libro dimostra come ormai sia possibile, con il passaggio generazionale, che la storia della Resistenza assuma nuove forme di conservazione del ricordo. La ricerca di Colombara ruota intorno a uno spazio geografico deliberatamente ristretto: Vercelli, Biella, Novara e soprattutto l’area del Verbano, Cusio Ossola. Il libro si fonda su fonti di memoria, interviste della durata media di due ore, sapientemente intrecciate con le fonti di archivio e con alcune testimonianze d’autore preziose (Franco Fortini, il giovane Piero Chiara), ma proiettate sul lungo periodo. Notevole il capitolo introduttivo sul Carnevale di Mussolini ossia il 25 luglio letto come se fosse una riemersione del rito del charivari, antico atto simbolico di giustizia popolare ruotante intorno a pubbliche dimostrazioni chiassose e irriverenti. La narrazione ricava da questa composita metodologia un indubbio vantaggio e il lettore viene amabilmente guidato per mano fuori dalle derive storiografiche iper-politicizzate, cui siamo stati costretti per tanti decenni passati.La ricerca si snoda intorno a cinque nodi problematici. Tre riguardano riti simbolici collettivi: il 25 luglio, l’esperienza partigiana studiata come ciclo della vita, le simbologie tradizionali (le bandiere, i graffiti sui muri, le canzoni, le usanze di morte e di dileggio). Due nodi problematici riguardano i miti e le leggende: il comunista creativo, i comandanti gentiluomini e l’immagine del duce nelle memorie popolari.In alcune di queste sezioni, non vi è dubbio, si osserva una certa ripetitività e ritornano spunti e argomenti già noti, in taluni casi obsoleti (penso al capitolo su Mussolini, alle pagine sulle bandiere o sulle canzoni popolari). Il più innovativo mi sembra il paragrafo Muri scritti, dove si analizza nel suo formarsi il caso più eclatante di quella che Colombara definisce «la creatività calda» di quei mesi. Appoggiandosi ad uno dei testi più affascinanti di Marc Bloch, sul ruolo che ha la diffusione di false notizie in ogni guerra, l’a. ragiona, con spirito equilibrato e senza più paura di essere accusato di strumentalismo di parte, sul nascere delle figure mitiche e leggendarie, ma anche sulla attendibilità o più spesso sulla inattendibilità delle fonti documentali, soprattutto in relazione al tema cruciale della violenza e delle efferatezze compiute dall’una, ma anche dall’altra parte. Con ammirevole candore l’a. rende esplicita una ovvietà, che solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile esprimere. La ricostruzione precisa dei fatti può dimostrare sia che non tutti i nazisti erano incuranti delle più elementari norme di umanità e certe efferatezze sono state una esagerazione (è il caso di alcune notizie false su decapitazioni di partigiani), ma può anche dimostrare il contrario, cioè che «certi determinati particolari non siano stati specificati per ritegno o discrezioni» ossia che è esistita pure una umanissima reticenza di fronte all’orrore. Su questa che Colombara definisce «invadenza di voci ed errori» il libro contiene spunti davvero convincenti e fecondi.

Alberto Cavaglion