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Flavia Solieri – Cina 1948-1950 – 2006

Flavia Solieri
Milano, FrancoAngeli, 240 pp., euro 19,00

Anno di pubblicazione: 2006

Un vizio oramai radicato fa sì che di un libro prima di tutto si leggano bibliografia e note. Nel lavoro di Flavia Solieri una felice scoperta: finalmente l’impiego di fonti cinesi recenti da parte di una studiosa italiana. Il volume esamina un passaggio importante nella storia del comunismo cinese, la vittoria nella guerra civile e la conquista del potere. Purtroppo all’autrice, preoccupata di mettere in risalto come abbia vinto una «classe dirigente degna di questo nome», capace di «traghettare l’intero paese verso la governabilità» (p. 209), sfuggono vicende e caratteristiche di quel comunismo e del regime da esso instaurato. Solieri fatica anche a chiamare le cose con il proprio nome: scrive di «uscita di scena» per indicare l’epurazione che porta al suicidio di Gao Gang, oppure definisce «aggiuntivi» (p. 207) i trattati segreti firmati a Mosca nel febbraio 1950. Dal libro non si comprende quanto siano stati spietati Mao e il gruppo dirigente del PCC. Ad esempio, nel 1948 quando fallì la conquista militare di Changchun in Manciuria, Mao ordinò a Lin Biao di prenderla per fame. Dopo cinque mesi, del mezzo milione di abitanti ne restavano circa un terzo. Persino le cifre edulcorate fornite dal PCC indicano in 120.000 i soli morti per fame. La stessa spietata tattica fu applicata ad altri centri urbani, come rivela nelle memorie del tempo di guerra il generale Su Yu. Solieri ne tace, ma nel 1989 il tenente colonnello Zhang Zhenglong venne posto agli arresti domiciliari per averne scritto e il libro ritirato dalla circolazione (ma per fortuna ristampato a Hong Kong). Kang Sheng non è ricordato da Solieri. Ma proprio a lui, che poco sapeva di agricoltura ma era invece assai esperto nella pianificazione del terrore, venne affidata verso la fine del 1947 la radicalizzazione della riforma agraria nello Shandong. I villaggi, che storicamente avevano diretto la propria ostilità contro esattori delle tasse e funzionari, vennero investiti da una artificiale e deliberatamente esasperata ondata di «lotta di classe», fomentata degli attivisti del PCC che si tradusse in una orgia di disumana pubblica brutalità. Mao ne è bene al corrente (tra l’altro aveva affidato il figlio Mao Anying a Kang Sheng affinché si educasse in questa «nuova esperienza»), e si comportò come a Yan’an, lasciando diffondere il terrore fin nel più remoto villaggio. Solo dopo aver raggiunto questo obiettivo «scoprì» gli eccessi e nella primavera del 1948 fece di Liu Shaoqi il «capro espiatorio» La riforma agraria fu un regno del terrore, finalizzato a imporre la volontà del PCC sui villaggi e a coinvolgere direttamente il maggior numero di persone in efferate violenze. Il sistema di controllo sociale, forgiato in parte già prima del 1949 attraverso la mobilitazione politica e la violenza, divenne particolarmente pervasivo dopo la presa del potere. In conseguenza di brutali e cruente campagne di terrore, la Cina pagò il più alto costo umano nella storia del comunismo. Tutto questo sfugge all’autrice che, invece, riesce a vedere nel totalitarismo cinese un «progressivo allargamento della partecipazione a forme assembleari e rappresentative anche a contadini medi e poi a ceti sociali diversi» (p. 208). Decisamente non bastano una ricca bibliografia e fonti nuove a rendere un libro appetibile e credibile.

Fernando Orlandi