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Fortunato Minniti – Il Piave – 2000

Fortunato Minniti
il Mulino, Bologna

Anno di pubblicazione: 2000

Nella collana “L’identità italiana”, appare questo volume, steso con scrittura assai più leggibile di altri suoi pari, eppure denso di informazioni e di suggerimenti, spunti, riflessioni. Al centro del libro stanno le tre battaglie del Piave, quell’arresto dopo Caporetto (novembre-dicembre 1917), quella del Solstizio (giugno 1918) e quella dello sfondamento finale, che avrebbe condotto a Vittorio Veneto e alla vittoria (ottobre-dicembre 1918). Tre battaglie, ma nel “mito” di fatto entrò soprattutto la seconda: governo e Comando Supremo solo allora poterono trarre un sospiro di sollievo e ritenere superata e “vendicata” Caporetto.
Il volume – divulgativo come la collana vuole ma colto, ricercato e non improvvisato – ha sostanzialmente tre centri di gravità: la ricostruzione delle battaglie, l’analisi del “mito” e il suo ruolo nell’identità degli italiani (del 1918 e di oggi).
Sul punto della storia militare, non vi è niente da eccepire, come è chiaro conoscendo la lunga esperienza dell’autore in tema di storia militare italiana (peraltro più dell’Italia liberale e del fascismo che della Grande Guerra): l’unica osservazione, di fondo, è che l’autore deliberatamente stacca il nome del Piave da quello del Grappa, Caviglia da Giardino, la guerra di pianura e di fiume da quella di montagna: mentre invece lo scacchiere era unico. Sul punto del mito, il volume sfrutta la rinomanza della canzone de “La leggenda del Piave” come indice della diffusione del mito: il che è sufficiente in un volume divulgativo, ma rimane parziale ad una lettura più esigente (ad esempio, in termini di monumentalizzazione e di sacralizzazione del territorio, di nuovo, il Grappa – difficile dire se solo perché più studiato – ci appare oggi superiore).
Più delicato il terzo punto, quello del ruolo del mito nell’identità italiana. L’autore sostiene, in sostanza, che la guerra difensiva, la sua accezione e memoria popolare, “efficace” (p. 120) perché collegata alla successiva e finale vittoria, ha rappresentato quella “moralità” della Grande Guerra italiana che le spallate cadorniane non possedevano. Il Piave, cioè, rimanderebbe al nazionalismo liberale, “moderato, costituzionale, espressione di piena libertà politica e civile” di contro al “nazionalismo aggressivo, prevaricatore, affamato di predominio ed esasperato” (p. 123): un Piave, quindi, “politicamente non schierato, non arruolabile da nessun partito” (p. 125), insomma nazionale. Il Piave allora come la battaglia, anzi, la guerra dell’interventismo democratico: l’unica morale, moralmente difendibile, oggi ed allora.
Il punto è rilevante e non può essere discusso qui. Certo la guerra aveva cambiato carattere politico, dopo Caporetto. Ma non per questo cambiava natura: ed anzi gli studi recenti sull’ultimo anno di guerra ridimensionano le soluzioni di continuità. Osserviamo soltanto che, nell’economia della collana, che non pare sino ad oggi preveda né Caporetto né Vittorio Veneto (o l’Isonzo), la scelta di questo Piave appare simbolica.

Nicola Labanca