Cerca

Francesca Lidia Viano – Una democrazia imperiale: l’America di James Bryce – 2003

Francesca Lidia Viano
Firenze, Centro Editoriale Toscano, pp. 216, euro 20,00

Anno di pubblicazione: 2003

The American Commonwealth (1888) del liberale britannico James Bryce è un classico della riflessione europea ottocentesca sugli Stati Uniti, spesso accostato al più vecchio capolavoro di Tocqueville. Nei quattro agili capitoli che formano questo libro, Viano ne traccia le origini e i significati, disegnando nel contempo una serrata biografia intellettuale dell’autore, forse trascurando un po’ le sue fonti americane, i termini di una conversazione transatlantica che invece era vivace. Ne discute, com’è inevitabile, uno dei luoghi cruciali e più tradizionali (e più influenti), ossia l’attenzione per le forme di organizzazione della giovane democrazia d’oltreoceano, per i partiti politici. Ma lo fa in una prospettiva inusuale, alla fine di un percorso interessante.
Prima di occuparsi di America e partiti, Bryce si era occupato di imperi, in particolare del Sacro Romano Impero. In esso aveva ritrovato il lascito di quella che riteneva una delle più importanti (e attraenti) virtù del vecchio Impero di Roma, ossia una struttura politica e amministrativa flessibile e aperta alle popolazioni provinciali, in grado di raccogliere genti con culture diverse dentro una grande comunità ?multietnica’, di coniugare dominio imperiale e autonomia e libertà. Nel fervore nazionalista dell’Europa di metà Ottocento, che faceva coincidere nazione e Stato, sembrava a Bryce che non esistessero più le condizioni per l’emergere di entità di questo tipo, nazioni imperiali non statalizzate, scrive Viano, senza né centri né periferie. Un vero peccato.
Per questo Bryce guardò agli Stati Uniti. Un continente con un popolo eterogeneo senza un passato comune, senza consolidate identità razziali, linguistiche, religiose. Certo con delle peculiarità rispetto agli imperi del passato, perché qui gli elementi di varia origine si mescolavano in un melting pot (Bryce usò questo termine nel 1877, trent’anni prima che fosse di uso corrente). E tuttavia con una grande capacità di far convivere le diversità in un unico commonwealth articolato e decentrato. Tutto ciò grazie allo spirito di eguaglianza di una Repubblica commerciale e agraria. I cittadini comuni, farmers e workingmen, si autogovernavano senza l’assistenza pedagogica di un ceto illuminato e senza fare riferimento allo Stato con la maiuscola: uno scandalo impensabile, per gli osservatori europei d’élite.
I partiti erano parte della trama dell’autogoverno. Erano partiti-macchina, corrotti, manipolati dai boss, come voleva un’opinione diffusa che si sarebbe riversata nella scienza politica dell’Europa di inizio Novecento (anche con l’aiuto di una lettura selettiva di Bryce)? Nelle grandi città era così, diceva Bryce, ma questa non era la loro essenza. Altrove, nell’immenso corpo del paese, erano strumenti di autorganizzazione del suffragio popolare, di formazione delle candidature alle cariche pubbliche, di raccolta di cittadini con idee analoghe che tuttavia non pretendevano di influenzare o modificare. Erano uno dei cuori pulsanti ed extrastatali di una ?democrazia imperiale?.

Arnaldo Testi